Quando l’Arandora Star salpò per l’ultima volta
Sono trascorsi 80 anni esatti da allora perché l’Arandora Star salpò da Liverpool nella notte tra domenica 30 giugno e lunedì 1° luglio 1940.
Non avrebbe mai raggiunto il Canada, sua destinazione. Non avrebbe mai fatto ritorno.
Arandora Star 1940
Da 80 anni esatti il suo relitto giace sul fondo dell’Oceano Atlantico, a 75 miglia marittime a nord ovest della costa irlandese del Donegal.
Ebbene, proprio nel triste anniversario del suo affondamento, noi vogliamo narrarvi con grande commozione la storia di un transatlantico unico e straordinario, che fu definito “la più elegante nave da crociera del mondo” e il cui tragico destino rappresenta purtroppo il primo eccidio di italiani civili della Seconda Guerra Mondiale.
Ma partiamo dall'inizio.
Su commessa della compagnia di navigazione britannica Blue Star Line, tra il 1925 e il 1927 i cantieri Cammell Laird’s & Company di Birkenhead upon Mersey (Liverpool) costruirono cinque navi gemelle, con una stazza di quasi 13000 tonnellate e dai nomi suggestivi:
Almeda, Andalucia, Arandora, Avelona e Avila.
Esse erano destinate alla rotta del Sud America, assai battuta per il commercio: la Gran Bretagna importava già allora, infatti, carne dall’Argentina. Ma, arredate con ricercatezza e dotate d’ogni confort, erano state concepite soprattutto per il trasporto passeggeri.
Arandora Star 1927
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L’Arandora fu varata il 14 gennaio 1927 ed entrò in servizio nel maggio dello stesso anno. Purtroppo, insieme con le altre 4 nuove navi della Blue Star Line, fu subito oggetto di contesa: il fatto che ognuna di esse avesse un appellativo che cominciava e che terminava con la lettera A non piacque alla Royal Mail, che sceglieva nomi con caratteristiche analoghe per le proprie navi di servizio. Così, su pressione delle Poste britanniche, la Blue Star Line decise di evitare ogni confusione e di aggiungere il sostantivo Star ai nomi dei suoi cinque transatlantici.
Non solo: decise anche di trasformare la neo rinominata Arandora Star in una vera e propria nave da crociera.
Venne pertanto mandata in Scozia, a Glasgow, dove nel 1928 presso i cantieri Fairfield’s subì una profonda trasformazione: aumentò di stazza, raggiungendo le quasi 16000 tonnellate, fu ridipinta di bianco, tanto da guadagnarsi il soprannome di The Wedding Cake o di Chocolate Box, furono allestiti la palestra, la piscina, il campo da tennis, la biblioteca, un favoloso salone affrescato e rivestito di specchi per le serate danzanti e, soprattutto, cabine ampie e assai lussuose.
Avrebbero, infatti, dovuto accogliere pochi ospiti privilegiati – 354 passeggeri al massimo – disposti a pagare una cifra considerevole per godersi una crociera da sogno.
Molti fra i divi di Hollywood, ad esempio, si concessero una vacanza sull’Arandora Star:
cercando in rete, è abbastanza facile reperire le foto di Charlie Chaplin, scattate a bordo.
Charlie Chaplin a bordo della Arandora
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Dal 1928 al 1939, l’Arandora Star, che partiva dal porto di Southampton, solcò i mari donando ai crocieristi scenari mozzafiato.
In estate la Blue Star Line proponeva di trascorrere una quindicina di giorni in viaggio nel Circolo Polare Artico o nei fiordi della Norvegia o visitando le capitali del Nord.
Si svernava a bordo nei mari del Sud: Antille, Caraibi Panama, Cuba, la Florida…
E nelle mezze stagioni era molto richiesta la crociera nel Mediterraneo:
le dimensioni della nave, che era grande ma non enorme, permettevano di far scalo nelle località più suggestive;
sempre in rete, si possono vedere le immagini dell’Arandora Star ancorata a Venezia, di fronte a piazza san Marco.
Arandora Star 1930 a Venezia
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La fortuna di questo transatlantico era anche dovuta alla squisita accoglienza del suo equipaggio.
Edgar Wallace Moulton
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Era comandata dal capitano Edgar Wallace Moulton, autentico gentlemen inglese, il quale insieme con gli altri ufficiali circondava gli ospiti d’ogni attenzione. E c’erano ben cinque cuochi di bordo per soddisfare anche i palati più esigenti.
Video della nave da crociera Arandora Star
L’incantesimo s’infranse con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, nel settembre del 1939.
Non era più tempo per crociere di super lusso, allietate da atmosfere esotiche, e l’Ammiragliato britannico, fra le tante navi, requisì anche l’Arandora Star per convertirla alle operazioni belliche. Per strana ironia, essa non perse il suo equipaggio ma il capitano Moulton e i suoi ufficiali continuarono ad accogliere con garbo e discrezione i soldati che s’imbarcavano.
Per diversi mesi fu assegnato all’Arandora Star un duplice compito:
da un lato era stata attrezzata per sperimentare reti antisiluro e dall'altro faceva la spola tra l’Inghilterra e le costa bretone, per soccorrere e per prendere a bordo i fuggiaschi che i regimi nazista e fascista minacciavano.
Poi si giunse alla fatidica data del 10 giugno 1940, quando Mussolini dichiarò guerra al Regno Unito e alla Francia.
Quello fu davvero un giorno tremendo per tutti gli italiani – circa 18000 persone – che da anni vivevano con le loro famiglie e lavoravano in Gran Bretagna. Da amici, perfettamente integrati nella società inglese e stimati per le loro capacità, si trasformarono in nemici.
Erano ristoratori, direttori d’albergo o semplici camerieri, proprietari di caffè alla moda, barbieri, ingegneri, economisti, musicisti e cantanti d’opera, pittori, imprenditori e responsabili di ditte che importavano prodotti italiani…
Erano ormai tutti considerati potenziali spie. Già nella notte tra il 10 e l’11 giugno essi furono arrestati a tappeto e portati in campi di internamento e pare che sia stato il premier inglese Winston Churchill in persona a proferire la loro condanna:
“Collar the lot”, ovvero “Prendeteli tutti al guinzaglio!”
Furono strappati all'intimità della vita quotidiana solo gli uomini tra i 18 e i 75 anni:
le donne furono lasciate a casa, spesso a fare la fame perché dipendevano economicamente dai mariti, e costrette a trasferirsi all'interno, ad almeno 8 miglia dalla costa britannica.
Lasciandosi alle spalle tutta la loro esistenza e l’agiatezza conquistata con un duro lavoro.
Vero è che l’idea iniziale era quella di arrestare soltanto gli italiani con notorie simpatie fasciste. Ma era assai difficile fare una giusta distinzione.
Nelle principali città del Regno Unito, infatti, erano state autorizzate e aperte le cosiddette Case del Fascio o Case del Littorio: tanti fra i nostri connazionali le frequentavano, anche se non erano iscritti al partito fascista. Perché le consideravano una sorta di circoli ricreativi, nei quali si discorreva con altri italiani, si danzava insieme, si ascoltavano concerti di musica, si mandavano i propri figli a studiare la lingua di Dante.
E poi nelle Case del Fascio ti aiutavano a registrare i documenti in Italia, a pagare le tasse, a trovare lavoro… Non erano ritenuti luoghi di propaganda politica, luoghi sospetti, anche perché la maggior parte dei nostri emigrati si erano trasferiti in Gran Bretagna ben prima della marcia su Roma e non conoscevano direttamente la ferocia del regima fascista.
Che in Gran Bretagna ci fossero tuttavia tanti gerarchi fascisti veri e propri era risaputo dal Governo inglese.
Sino a quel momento erano stati addirittura accettati e le loro camicie nere erano state giudicate quasi folcloristiche ma adesso dovevano essere assolutamente isolati. Si pensò allora di caricarli su una nave e di rinchiuderli in un campo di internamento in Canada. E la nave stessa venne individuata nell’Arandora Star. Fu predisposta la partenza per la fine di giugno.
Sennonché, nel frattempo, Mussolini e Churchill avevano avviato trattative segrete per uno scambio di prigionieri: i gerarchi fascisti sarebbero stati rimandati a Roma affinché fossero liberati i diplomatici britannici.
Il 26 giugno 1940, dunque, un’altra nave, la Monarch of Bermuda, con circa 630 persone a bordo tra capi fascisti e loro familiari, raggiunse il porto di Lisbona, dove avvenne lo scambio con gli inglesi che avevano lasciato l’Italia a bordo della “Conte Rosso”.
E l’Arandora Star?
A quel punto non c’erano più i fascisti con cui stiparla, perché avevano già tagliato la corda, protetti e riveriti dal Governo inglese. Restavano i pesci piccoli e, soprattutto, restava gente che con il fascismo non c’entrava affatto.
Ma la nave doveva salpare ugualmente. Ci voleva un capro espiatorio con cui rassicurare l’opinione pubblica.
Si fece di ogni erba un fascio – ci venga perdonato il gioco di parole – per riempirla. Si attinse all'orrore del campo di internamento di Whart Mills, che era un ex cotonificio di Bury, nei pressi di Manchester, senza servizi igienici, senza brande per tutti, con i ratti che scorrazzavano in mezzo alla sporcizia, nel quale per circa 3 settimane erano stati reclusi centinaia e centinaia d’italiani.
Si presero gli antifascisti più convinti, che erano teste calde persino per gli inglesi, gli ebrei italiani, austriaci e tedeschi che avevano chiesto asilo politico nel Regno Unito dopo la promulgazione delle vergognose Leggi Razziali, i padri di famiglia che non s’interessavano di politica… D’accordo, poi c’erano anche i fascistelli all'acqua di rose, ma si stima che non superassero come numero il 10–15% degli italiani imbarcati a forza sull’Arandora Star.
Arandora Star la nave dei fascisti italiani
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Non importa: da quel momento e per decenni l’Arandora Star divenne la “nave dei fascisti italiani”, qualifica tutt'altro che lusinghiera che, al limite, sarebbe spettata di diritto alla Monarch of Bermuda.
Quando salpò dal porto di Liverpool aveva a bordo i 174 membri dell’equipaggio originario, con tanto di capitano Moulton a comandarla, i 200 fanti del maggiore inglese Christopher Aleck Bethell, che rappresentavano la scorta armata dei prigionieri, 712 internati civili italiani (come si desume dall'elenco degli imbarcati; secondo altre fonti, erano 734), 393 internati civili tedeschi e austriaci e 86 prigionieri di guerra tedeschi.
Questi ultimi costituivano l’intero equipaggio prigioniero di una nave della marina militare del Terzo Reich che era stata catturata dagli inglesi, la Adolf Wörmann, il cui capitano si chiamava Otto Burfeind.
Otto Burfeind
In tutto, a bordo dell’Arandora Star c’erano tra i 1550 e i 1600 uomini quando la capienza, negli anni ruggenti delle crociere, era di meno di 600 persone!
Arandora Star quando era chiamata The Wedding Cake
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Come anticipato, la nave lasciò il porto di Liverpool verso le ore 4 del mattino del 1° luglio 1940. Com'era diversa dal transatlantico di un tempo! Non era più The Wedding Cake ma un mezzo militare, malamente ridipinto di grigio, con il filo spinato lungo tutti i ponti (per evitare che i prigionieri si buttassero in mare) e addirittura con un paio di cannoni da operetta, uno a poppa e l’altro a prua. In più, la sua linea di galleggiamento era terribilmente bassa, perché era stipata di gente e faceva supporre un trasporto di armi o di truppe. Con il mare tra Gran Bretagna e Irlanda infestato da U-boat tedeschi, il capitano Moulton temette sin dall'inizio un attacco e decise di farla procedere a zig-zag.
La crociera dei disperati – che d'altronde vi si trovavano bene, dopo gli orrori dei campi di internamento inglesi, perché il capitano Moulton e l’equipaggio intero li trattavano finalmente con gentilezza e con umanità – durò poco più di un giorno.
All'alba di martedì 2 luglio l’Arandora Star incrociò sopra l’Irlanda il sottomarino U-47 del comandante tedesco Günther Prien, di ritorno da una missione.
Prien non era affatto un nazista, era semplicemente un soldato molto zelante e individuò subito in essa un pericolo. Non era un nazista ma un uomo d’onore e non avrebbe mai e poi mai silurato una nave prigionieri.
Ma l’Arandora Star era stata mascherata con la livrea di guerra e nulla indicava il suo reale carico.
Il comandante tedesco decise quindi di provare a colpirla con l’ultimo siluro che gli restava e che, quale beffa, era anche difettoso. Purtroppo andò a segno e alle ore 6,58 sventrò la sala macchine del transatlantico.
L’affondamento dell’Arandora Star non fu, di conseguenza, un comune episodio bellico, una sorta di fatalità inevitabile, ma un crimine di guerra inglese.
Il Governo britannico, infatti, era nel pieno diritto di tutelarsi, internando dei potenziali nemici.
Era un suo diritto anche trasferirli in Canada
ma avrebbe dovuto farlo rispettando rigorosamente il protocollo della Convenzione di Ginevra del 1929,
che prescriveva l’affiancamento obbligatorio di due incrociatori per ogni nave prigionieri,
sui fumaioli e sul ponte della quale doveva essere dipinto in modo ben visibile l’emblema di un’organizzazione umanitaria internazionale, tipo la Croce Rossa.
Al contrario, l’Arandora Star fu mandata allo sbaraglio incontro al suo destino, senza alcuna tutela e senza alcun contrassegno, e trascinò con sé in fondo al mare 805 vittime assolutamente innocenti, fra cui 446 erano italiani che con la guerra in corso non c’entravano proprio nulla.
La nave affondò in soli 35 minuti.
Minuti eterni per gli sventurati che erano a bordo e che non vedevano possibilità di salvezza. Aveva soltanto 14 scialuppe – utili per 600 persone – ma solo 10 furono effettivamente ammarate. C’erano anche i canotti e i salvagenti eppure nella fretta di partire, che aveva dimostrato il maggior Bethell, non era stata impartita alcuna istruzione ai prigionieri su come attenersi in caso di pericolo.
La prua s’impennò quasi subito, raggiungendo l’altezza sul mare di un palazzo di diversi piani. Il cannone che si staccò da lassù sradicò parte del filo spinato, stritolando i poveretti che si aggrappavano alle sponde.
Molti non riuscirono nemmeno a risalire dai piani inferiori e annegarono nel ventre dell'Arandora Star. Altri si buttarono tra le onde e si fracassarono l’osso del collo nell'impatto. Altri ancora vennero ammazzati dai salvagenti che venivano buttati dall'alto.
Intanto il capitano Moulton era eroico nel tentare di coordinare i soccorsi.
Mentre i fanti inglese spianarono i fucili addosso agli italiani sin quasi all'ultimo, senza comprendere la gravità del momento, l’equipaggio “da crociera” fu assolutamente encomiabile.
E va menzionato anche l’equipaggio tedesco, che si fece in quattro, tagliando addirittura il filo spinato per aiutare i civili.
Quando Moulton impartì l’ordine del “Si salvi chi può”, il capitano tedesco Burnfeind scelse di rimanere lui pure sul ponte di comando, per morire accanto a Moulton, come se la nave di cui era prigioniero fosse stata la sua nave. A loro si affiancò infine il maggiore Bethell, dopo aver donato il proprio salvagente a un internato italiano.
Mentre l’Arandora Star s’inabissava, un vecchio prete italiano, malfermo sulle grucce, restò in mezzo ai disperati senza scampo, a benedirli e a confortarli sino all'estremo respiro. Fu la loro unica speranza per affrontare con dignità la fine imminente e morì da santo. Si chiamava padre Gaetano Fracassi, era originario della diocesi di Cremona, ed era stato parroco a Manchester, presso la chiesa di St. Alban.
Padre Gaetano Fracassi
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Coloro che erano riusciti a gettarsi tra i flutti morirono invece per ipotermia o intossicati dalla nafta:
essendo stata colpita la sala macchine, il mare era nero di carburante.
I soccorsi arrivarono soltanto 6 ore dopo, quando i sopravvissuti, che avevano resistito sulle scialuppe o aggrappati a zattere di fortuna (molti non sapevano neppure nuotare), furono raccolti intirizziti e con gli arti assiderati dal cacciatorpediniere canadese St. Laurent.
Furono portati in Scozia e, per assurdo, furono più fortunati gli italiani feriti, perché quelli che stavano meglio furono imbarcati dopo pochi giorni su un’altra nave, la Dunera, e furono portati in Australia, senza nemmeno l’umana pietas di permettere loro di riabbracciare le famiglie.
Molte spose sapranno che i loro uomini annegarono nell'affondamento dell’Arandora Star soltanto nel 1945.
Nell'agosto, le salme delle vittime cominciarono ad arrivare a riva, disseminandosi su circa mille chilometri di costa, nelle contee settentrionali dell’Irlanda (Mayo, Sligo, Donegal e il britannico Antrim) e delle isole Ebridi.
E qui avvenne qualcosa di straordinariamente consolante:
queste popolazioni poverissime, perché allora non c’era il turismo, si tolsero letteralmente il pane di bocca per garantire a tutti gli ignoti stranieri recati dal mare almeno una decorosa sepoltura.
Un gesto che, mentre infuriava la Seconda Guerra Mondiale con tutte le sue atrocità, rappresenta un generoso atto di solidarietà tra i popoli.
Solo 17 tra le vittime italiane dell’Arandora Star furono riconosciute; per tutte le altre resta una lapide anonima:
“Un italiano che Dio ama”.
Come mai, a 80 anni di distanza, occorre ancora raccontare la storia dell’Arandora Star?
Forse perché difficilmente la si trova citata sui libri. Forse perché il Governo inglese non ha mai espresso alle famiglie di questi poveri civili una parola di rincrescimento. Forse perché le famiglie stesse, vergognandosi che l’Arandora Star fosse a torto “la nave dei fascisti”, tacquero per troppo tempo. E poi, dopo l’8 settembre 1943, quando noi italiani fummo tollerati senza entusiasmo dagli inglesi come cobelligeranti, con quale coraggio avremmo potuto chiedere il conto di 446 nostri connazionali morti per un loro crimine di guerra?
Chi ha scritto queste poche pagine in esclusiva per CaffèBook ha di recente pubblicato un romanzo storico sulla vicenda dell’Arandora Star (“Quel che abisso tace”, Parallelo45 Edizioni, novembre 2019). Ma questo non è importante.
Chi scrive aveva un parente stretto a bordo della nave, morto esattamente 80 anni fa. Si chiamava Cesare Vairo, era milanese, era un giornalista ma era anche il direttore del Piccadilly Hotel di Londra, fino al 10 giugno 1940, perché fu tra i primi a essere arrestato. Era soprattutto il cugino di primo grado della nonna materna.
Chi vi scrive ha scelto di essere la voce di Cesare Vairo, morto senza figli, senza nessuno che potesse difenderne la memoria, e degli altri italiani naufragati con l’Arandora Star.
Perché questo terribile crimine di 80 anni fa sia finalmente ricordato e custodito in una sorta di scrigno d’affetto da tutti gli italiani.
Perché questi morti sono nostri, perché questi morti ci appartengono.
Foto da Wikipedia. Elaborazioni Caffèbook.