Le Cinque Giornate di O’Donnell
Sembra un’esagerazione, eppure senza il conte di Tyrconnell difficilmente le circostanze storiche avrebbero portato, nel 1848, alla Prima Guerra d’Indipendenza. Attraverso i fatti d’allora, tracciamo per il lettore un rapido schizzo di un uomo che discendeva dall'ultimo grande capo tribù d’Irlanda.
La sera del 16 marzo 1848 il conte Maximilian Karl Lamoral O’Donnell andò a dormire tranquillo.
Ovviamente era un po’ impensierito per le notizie che da Vienna erano arrivate sin nel Lombardo Veneto. C’erano voci di sollevazioni: il popolo si era rivoltato contro Metternich, costringendo la Corona Imperiale a inaudite concessioni. Si temeva che anche a Milano, per una sorta d’esaltato contagio, esplodesse qualcosa d’analogo.
Ma O’Donnell, giovanotto di 36 anni dal viso piacente e dai baffi scuri, dall'impeccabile portamento marziale, il quale portava con onore il titolo di conte di Tyrconnell ed era nipote del più valente generale di Maria Teresa d’Austria, non era preoccupato.
A Milano era solo di passaggio: d’accordo, gli avevano conferito la carica di vicegovernatore ma la responsabilità d’ogni decisione sarebbe spettata al viceré Ranieri. E poi, in quella vigilia di festa, il suo spirito era distratto. Il giorno dopo, infatti, si commemorava san Patrizio, patrono della terra da cui la sua famiglia era esule ormai da due secoli.
Per gli irlandesi che vivevano in patria, forse era diverso. Forse quella celebrazione non era così sentita perché c’erano i tanti problemi della vita quotidiana a soffocarla. In un anno di carestia come il 1848, che sarebbe passato alla storia per gli orrori della fame, san Patrizio rimaneva distante dall'angoscia della gente, imprigionato in un’Aurea aetas di cui s’era perduta memoria.
Il conte Maximilian Karl Lamoral O’Donnell
Ma per O’Donnell, come per tutti gli esuli irlandesi riparati in Austria, Spagna, Francia o America, il giorno di san Patrizio era prezioso come un simbolo d’appartenenza.
Era un giorno di riscatto, di cui l’oppressione inglese non aveva potuto privarli. Ed era qualcosa d’intimo, di familiare per chi non aveva più radici; per chi, come il conte Maximilian, aveva conosciuto e vagheggiato l’Isola di Smeraldo soltanto attraverso i racconti nostalgici dei parenti, senza averla veduta.
O’Donnell non si aspettava certo che fossero gli italiani, i milanesi che gli erano persino simpatici, a guastargli la festa…
Era ancora buio, erano le cinque del mattino di san Patrizio, quando il vicegovernatore fu strappato brutalmente ai suoi sogni.
“Eccellenza, il viceré Ranieri lascia Milano! Ripara a Verona!”
Il conte Maximilian comprese prontamente la situazione e, da buon irlandese, si rassegnò al suo destino.
Il governatore Von Spaur era assente: a Milano era rimasta solo la contessa sua moglie, che occupava un appartamento nell'altra ala di quello stesso Palazzo del Governo. Ora anche il viceré e la consorte si dileguavano, scortati da cinquanta ussari, temendo chissà quale calamità. A O’Donnell non restava che prendere in mano le redini della città e compiere la volontà dell’imperatore Ferdinando I.
Altro che commemorare san Patrizio in santa pace! Il conte Maximilian trascorse l’intero venerdì 17 a studiare la maniera di divulgare il documento imperiale appena giunto e che, evidentemente, aveva spaventato il viceré costringendolo alla fuga.
Si trattava dell’abolizione della censura, cosa di per sé abbastanza innocua, anzi, giovevole, ma tale da comprovare senz'ombra di dubbio l’avvenuta insurrezione viennese che aveva avuto come principale conseguenza il congedo di Metternich.
Come avrebbero preso i milanesi quella notizia?
O’Donnell temeva che stessero già organizzando in segreto un qualche movimento di piazza.
Tuttavia, alle ore 9 del 18 marzo, il conte Maximilian afferrò il coraggio a due mani e fece affiggere per la città i manifesti che annunziavano la decisione dell’imperatore d’abolire la censura.
La reazione non si fece attendere. Echi di sommosse pervennero subito al Palazzo del Governo.
Si trattava d’agire e di farlo in fretta. Se il vicegovernatore avesse allertato l’esercito austriaco, consegnando di fatto Milano al feldmaresciallo Radetzky, ogni fermento rivoluzionario sarebbe stato in breve annientato.
Ma O’Donnell era irlandese:
si può concepire che un irlandese, vittima di secoli di dominazione straniera, accettasse di buon grado di dare gli oppressi in pasto agli oppressori?
Egli era un suddito devoto e leale dell’Austria, che aveva accolto i suoi, quando erano stati cacciati come cani rognosi dal nativo Dún Na nGall. Non avrebbe mai tradito chi gli aveva permesso di tenere alto il nome dei signori di Tyrconnell. Eppure, far sparare sopra un popolo che, legittimamente, rivendicava l’autonomia e la libertà, che chiedeva all'Austria di restituirgli la stessa dignità che gli inglesi avevano sottratto alla gente d’Irlanda, era un atto che faceva rivoltare nella tomba i suoi antenati e che gli straziava la coscienza.
Per questo, egli prese tempo. Anziché avvertire tempestivamente Radetzky, convocò il podestà cittadino, il conte Gabrio Casati, e il delegato provinciale Bellati, chiedendo loro consiglio sul da farsi.
Casati e Bellati furono decisi nel dissuaderlo. Per carità, gli dissero, l’esercito doveva rimanerne fuori!
O’Donnell fece l’errore d’ascoltare il grido degli oppressi e questo fu fatale agli oppressori.
Le famose Cinque Giornate di Milano avvennero appunto perché ci fu l’intervento dei militari austriaci quando ormai era troppo tardi.
Ed era stato proprio O’Donnell, depositario di uno dei nomi più illustri d’Irlanda, a vanificare la repressione.
I capi moderati non riuscirono a dominare del tutto la sollevazione: tra mazziniani e correntiani non si misero d’accordo, il maldestro chierico Zafferoni accoltellò una sentinella che, di rimando, sparò sulla folla e questa, inferocita, assaltò il Palazzo del Governo. La contessa Von Spaur fu chiusa a chiave nel suo appartamento e la fiumana dei patrioti si riversò da O’Donnell.
Il vicegovernatore, o vicepresidente, come preferivano chiamarlo gli italiani, era intimorito ma la malinconia dei suoi occhi, l’apatia che le angherie subite dalla sua tuath nel passato avevano instillato nel suo atteggiamento, le rughe sulla fronte stanca dovettero colpire i milanesi. Per questo, forse, egli non fu né minacciato né insultato.
Quando accorsero i rappresentanti municipali, il conte Maximilian si mise con fiducia sotto la protezione del podestà Casati e, con un sospiro di sollievo, accolse la successiva apparizione dell’arcivescovo Romilli.
Gli si avvicinò poi un giovane focoso, che si chiamava Enrico Cernuschi. Con cortesia ma con determinazione, questi lo costrinse a scrivere e a firmare i tre celebri decreti che affidavano alla municipalità il governo della città, la polizia e le armi.
Questo il testo originale dell’autografo di O’Donnell:
“Il Vice Presidente, vista la necessità assoluta di mantenere l’ordine, accorda al Municipio l’assunzione della guardia civica. La guardia di Polizia consegnerà al Municipio le armi immediatamente. La Direzione generale di Polizia è destituita ed è affidata la sicurezza della città al Municipio”.
Si è favoleggiato sul come nacquero tali decreti, se fu Cernuschi a dettarne il testo a O’Donnell oppure se, su pressione dei patrioti, fu lo stesso conte Maximilian a scriverli di propria iniziativa. In ogni caso, dopo averli vergati, il vicegovernatore fece notare che ormai la sua firma non aveva più valore. Gli era stata estorta e Radetzky non l’avrebbe ritenuta valida.
Seguì un falso allarme: truppe austriache s’avvicinavano pericolosamente al Palazzo Generale del Governo. Che Radetzky, appreso quanto era accaduto, volesse assediarlo?
Le cose si stavano mettendo male e Casati supplicò O’Donnell d’affacciarsi al balcone e di disperdere gli austriaci.
Calava il crepuscolo e, nelle tenebre incipienti, era azzardato esporsi. Era facile trasformarsi nel bersaglio d’una pallottola sparata in preda a un impulso nervoso. Ma O’Donnell compì fino in fondo il suo dovere: si cinse un fazzoletto candido intorno al cappello, quasi che quel segno di resa avesse potuto renderlo maggiormente riconoscibile, e uscì sul terrazzo.
Barricate delle Cinque Giornate di Milano
Per fortuna, i soldati stavano eseguendo un normale giro di ronda, non lo videro e non si accorsero di nulla. Non capirono che stava tramontando la prima delle Cinque Giornate e che i milanesi li avrebbero presto espulsi dalla città. Proseguirono e scomparvero nelle vie buie.
I patrioti si resero conto che il Palazzo del Governo non era un asilo sicuro e tentarono di riparare altrove.
S’avvidero anche che O’Donnell era un impiccio: lasciarlo libero non potevano, perché avrebbe senz'altro revocato i decreti appena firmati. Quindi lo dichiararono prigioniero e Cernuschi s’incaricò d’arrestarlo. Se lo trascinò appresso lungo via Monte Napoleone mentre, insieme con Casati, Bellati, Manara e gli assessori Beretta e Greppi, si rifugiava in casa Vidiserti.
Fu da qui che il podestà scrisse a Radetzky e che il conte Maximilian controfirmò la lettera.
Naturalmente Radetzky non volle riconoscere le pretese dei milanesi, ingiunse loro di restituire all’istante l’ostaggio e proclamò lo stato d’assedio.
Trascorsa la mezzanotte, Casati, Beretta e Cernuschi si trasferirono nella vicina contrada de’ Bigli, presso la dimora del conte Carlo Taverna. O’Donnell fu costretto a seguirli. Tra quelle mura, egli visse i momenti salienti delle Cinque Giornate, dividendo le ansie degli insorti e subendo gli entusiasmi delle loro vittorie.
Quando fu istituito il Consiglio di Guerra e fu nominato il Governo Provvisorio, O’Donnell era presente e, quale “notizia per sua norma e direzione” dovette leggerne il verbale.
E quando il coraggio dei milanesi sulle barricate obbligò gli austriaci a ripiegare verso le fortezze dell’Adige, quando il soccorso dei piemontesi di Carlo Alberto tramutò la rivolta cittadina nella Prima Guerra d’Indipendenza, egli si credette perduto, abbandonato. Si sentiva stordito, incapace di scrollarsi di dosso quella passività che minava la sua consapevolezza e che lo riempiva di rimorsi.
Scontro nelle Cinque Giornate di Milano
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Ora che gli austriaci erano stati vinti, si riteneva responsabile della sconfitta. Eppure sapeva che non avrebbe mai potuto comportarsi altrimenti, autorizzando l’uso della forza in contrasto con la sua coscienza e con i suoi princìpi.
Spesso, nelle Cinque Giornate e anche dopo, nei lunghi mesi di prigionia, il conte Maximilian si chiese come si sarebbero condotti al suo posto coloro che lo avevano preceduto e che avevano portato il suo nome. Erano stati tutti uomini orgogliosi, sanguigni, d’una spregiudicatezza tale da rasentare la temerarietà. Egli, al contrario, avrebbe preferito tenersi lontano dagli strepiti, senza diventare suo malgrado lo zimbello degli italiani e il capro espiatorio degli austriaci.
Non si riconosceva l’ardire di Maghnas, che non aveva esitato a dichiarare guerra al padre Hugh ma che, fingendosi alleato dei nemici di sempre, gli O’Neill, proprio con il vecchio genitore aveva tramato per colpirli alle spalle. Né aveva il carattere indomito dei due fratellastri Calvagh e Hugh che, pur odiandosi sinceramente, erano stati entrambi eletti signori della tuath.
E come lo avrebbe giudicato Hugh Roe, l’ultimo a fregiarsi in Irlanda del titolo di capo tribù?
Ebbene, probabilmente il grande Hugh Roe O’Donnell non lo avrebbe condannato, concedendogli l’attenuante d’aver agito secondo giustizia. Lui, che era stato amico degli inglesi, non aveva esitato ad assediarli quando si era accorto della crudeltà con cui essi trattavano il popolo irlandese.
Li aveva braccati nel castello di Enniskillen e, nel 1594, li aveva costretti alla resa in quello che fu poi detto “Il guado dei biscotti”, perché gli invasori erano fuggiti via abbandonando sul campo gallette e viveri d’ogni sorta. Unitosi poi agli spagnoli di Filippo II, nel 1601 aveva accettato la sconfitta nella battaglia di Cionn tSáile e l’esilio in Spagna.
Hugh Roe O’Donnell era morto solo, senza rivedere la sua terra. Gli era bastato il conforto di aver operato secondo giustizia? E, più di duecento anni dopo, bastò a suo nipote Maximilian, discendente diretto del fratello Rory, non più capo tribù ma primo conte di Tyrconnell?
Trascorse le Cinque Giornate, infatti, con i milanesi finalmente padroni della loro città e con i piemontesi che avanzavano trionfanti, s’imponeva doverosa la liberazione degli ostaggi. Essi furono scambiati con patrioti da tempo detenuti nelle fortezze austriache e il Governo Provvisorio lombardo autorizzò persino la scarcerazione di nomi illustri, tra cui il principe ereditario di Parma.
L’unico a essere dimenticato, con pochi altri, fu proprio Maximilian O’Donnell.
Si possono fare varie ipotesi sul motivo che prolungò la sua detenzione. Esulando dall'antipatia politica, perché O’Donnell non fu un personaggio così intransigente da meritarsi l’odio del popolo, resta il fatto che sapeva troppo.
In una fase ancora delicata e, come si sarebbe visto in seguito, assolutamente precaria, la sua testimonianza sulle circostanze e sui fatti di marzo avrebbe potuto essere pericolosa. Ci sembra più cervellotica l’opinione di chi ha letto nella prigionia di O’Donnell la volontà dei milanesi di difenderlo, di sottrarlo agli austriaci che lo ritenevano responsabile delle Cinque Giornate.
Più cervellotica, sì, ma non del tutto irreale… Come sempre, anche in questo caso la verità si specchia nelle molteplici sfaccettature di una medesima gemma.
Il conte Maximilian O’Donnell, 1848
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Il 29 giugno 1848, il conte Maximilian scrisse una lettera a Gabrio Casati, lamentandosi della sua situazione. Ne riportiamo uno stralcio, quale riflesso genuino d’uno spicchio di storia.
“Dai Decreti con cui furono evase le istanze di alcuni degli ostaggi con me ritenuti in questo palazzo, potei desumere che già da qualche tempo erano in corso trattative pel cambio degli ostaggi stessi con i Milanesi che erano stati condotti a Salisburgo, Linz e Vienna.
Ora sento con piacere che parte di questi ultimi sono già arrivati in patria e che si attendono di giorno in giorno tutti gli altri.
In forza della reciprocità, che il Governo Provvisorio Centrale si compiacque di promettere in occasione della mia lettera del 13 maggio p. p. al Signor Conte Governatore del Tirolo, io mi tengo sicuro che saremo liberati anche noi e ciò tanto più, in quanto ché quelle mie informazioni avevano non poco contribuito al migliore trattamento dei suddetti Milanesi ed alla più pronta loro liberazione.
Non è quindi un benché menomo dubbio il motivo per cui, Signor Conte, Le avvio questo incomodo, ma essendo già scorsi più di tre mesi, dacché siamo detenuti, sentendo tutti vivamente la privazione della personale libertà, mi rivolgo alla conosciuta di Lei umanità e La prego a voler sollecitare i provvedimenti per la nostra liberazione”.
La Prima Guerra d’Indipendenza italiana durò soltanto 126 giorni, dato che il feldmaresciallo Radetzky rientrò in Milano il 5 agosto 1848.
O’Donnell fu liberato: non si poteva fare altrimenti.
Tuttavia fu isolato perché si era compromesso, pur con l’atroce consolazione di aver agito, proprio come i suoi antenati, secondo giustizia.
Rientrato finalmente a Vienna, probabilmente la carriera militare di O’Donnell sarebbe stata rovinata in modo irreparabile se non fosse stato scelto dal giovane imperatore Francesco Giuseppe come suo aiutante di campo.
E il fato ci mise lo zampino: il 18 febbraio 1853 riuscì a bloccare un nazionalista ungherese che si era avvicinato alle spalle dell’imperatore, sulle mura di Vienna, mentre questi dialogava proprio con O’Donnell.
Il conte Maximilian ebbe la prontezza di disarmare l’attentatore del pugnale e salvò la vita a Francesco Giuseppe. Ciò lo rese famoso e amato in tutto l’impero ma – si sa – gli irlandesi sono avvezzi ai repentini cambiamenti del vento e della fortuna…