Bram Stoker, Il rivale di Oscar Wilde
A un bambino malato le giornate trascorse a letto sembrano interminabili. Se poi l’infermità si protrae per tutta l’infanzia, s’impara a godere di gioie ineffabili e rare, come le fiabe raccontate dalla mamma o il paesaggio che la finestra ritaglia in una parete sempre uguale.
Questa dovette essere la vita che condusse sino all'età di otto anni.
Il suo fisico non aveva alcuna menomazione ma era così debole, così gracile che il medico sconsigliava di farlo alzare. La madre Charlotte, che lo adorava, passava ore e ore accanto a lui, raccontandogli storie bizzarre. Questa donna irlandese nativa di Sligo gli ripeteva spesso le leggende della sua terra, prediligendo quelle che suscitavano terrore, oppure gli narrava aneddoti sull'epidemia di colera dilagata quando lei era ragazza. Esorcizzava la paura del futuro, l’incertezza del destino riservato al figlio attraverso altre paure, paure fantastiche che ne stimolassero l’immaginazione.
Il tempo passava sempre troppo in fretta per Bram, quando aveva vicino la sua mamma. Altre occupazioni, poi, la richiamavano: la cura della casa, l’impegno verso le sue sorelle. Il bambino, allora, riviveva i racconti appena ascoltati o ne inventava altri.
A volte, guardava oltre i vetri della finestra in attesa d’una presenza amica. Sul marciapiede, infatti, passava sovente una bimbetta che abitava nella sua stessa via, nel tranquillo sobborgo dublinese di Clontarf che nove secoli prima aveva veduto le schiere dell'Ard-Rí Brian Boru vittoriose sugli invasori vichinghi.
Quella splendida creatura dal volto angelico, luminoso come un raggio di sole e roseo come un fiore in boccio, si chiamava Florence e Bram la contemplava con un misto d’ammirazione e di malinconia, come si fa con tutto ciò che si ritiene inarrivabile. D'altronde, che cosa mai avrebbe potuto accomunare quella minuta perfezione della natura con quel corpicino di malato sempre accasciato tra i guanciali?
D’improvviso, come per miracolo, le cose cambiarono.
A nove anni, Bram cominciò a camminare e s’irrobustì attraverso lo sport che, in seguito, praticò a livello agonistico.
Bram Stoker
Divenne un ragazzo grazioso: non era altissimo di statura, ma era ben fatto, con gli occhi cerulei, i lineamenti nobili e la fronte alta sotto il ciuffo di capelli rossi.
Studiò in una scuola privata della capitale sino a quando, nel 1864, a sedici anni, fu ammesso al Trinity College.
Figlio d’un impiegato statale, egli apparteneva a una stimata famiglia protestante. Le cose sarebbero andate diversamente se fosse stato cattolico perché quest’Università, all'epoca, era preclusa ai papisti.
Si laureò brillantemente in Scienze, con tanto di lode, e nel 1872 ottenne il posto di revisore contabile alla Trinity College Historical Society, impiego prestigioso e anche ben remunerato.
Stoker si era ormai trasferito in centro, in quella Kildare Street che si trova alle spalle della National Gallery.
Passeggiando per Dublino e rispondendo al saluto delle madri di buona famiglia che incrociava lungo la via, egli doveva accorgersi d’essere diventato quello che si suol definire “un buon partito”. Schivo di carattere, riservato, aveva tuttavia i requisiti adatti per essere ben accetto come genero a qualsiasi membro della borghesia. Ma il suo cuore continuava a rammentare un visetto d’angelo simile a una rosa in boccio.
Gli anni erano passati anche per Florence Balcombe, che ora veniva additata come la più bella ragazza di Dublino.
Aveva fatto già girare la testa a frotte di giovanotti, ma era difficile avvicinarla perché Florence non era eccessivamente romantica. Aveva appena rifiutato la corte e le profferte d’un giovane scrittore di nome Oscar Wilde, non perché costui fosse poco raccomandabile in fatto di moralità, – si vociferava che avesse delle amicizie un po’ particolari e che avesse contratto la sifilide, – ma perché era un artista e la sua carriera era precaria.
Al contrario, quando Stoker, raccolto tutto il suo coraggio, si presentò a lei e alla sua famiglia, non venne respinto. Egli aveva un lavoro onesto, redditizio, di responsabilità: era proprio il marito ideale!
Bram e Florence si sposarono nel 1878, nella chiesa di Sant'Anna.
Ma la loro vita fu molto diversa da quella che la donna aveva sognato. Florence aveva sottovalutato la grande passione di Bram per la letteratura e, soprattutto, per il teatro. Egli era attirato non solo dai drammi che s’andavano recitando sul palcoscenico ma anche dal carisma di alcuni attori.
In particolare, era un fan accanito di John Irving, allora celeberrimo, tanto da entrare in rapporti d’amicizia con lui.
Bram Stoker e John Henry Irving
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Quando questi gli propose di fargli da manager, Stoker accettò subito e si licenziò su due piedi. La nuova attività lo esaltava e lo stipendio non poteva essere migliore. Lo costringeva, però, a un’esistenza randagia, a lasciare l’Irlanda.
Con la moglie, un po’ disorientata, traslocò a Londra, nel quartiere di Chelsea, dove nacque suo figlio Noël.
Florence Balcombe la moglie di Bram Stoker
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Pur indaffaratissimo nell'organizzare tournée in Europa e in America per la compagnia di Irving, Stoker continuava ad assecondare le proprie tendenze letterarie. Aveva cominciato a scrivere e a pubblicare. Trovava ispirazione nelle leggende dell’orrore che avevano popolato la sua infanzia e nel talento magnetico dello stesso Irving.
Vederlo interpretare personaggi come Amleto o Faust gli suggeriva immagini di titanismo psicologico da trasferire sulla carta. I suoi personaggi avevano tanto nel bene quanto nel male lo stesso impeto dell’amico attore, la cui personalità soggiogò quella di Bram per i ventisette anni della loro collaborazione.
Nei pochi momenti liberi che gli rimanevano, Stoker si recava alla biblioteca del British Museum.
Egli s’interessava di spiritismo, d’esoterismo e, soprattutto, di vampirismo.
Da sette anni, ormai, lavorava a un romanzo che doveva essere unico nel suo genere, più potente della Camilla del dublinese Sheridan Fanu e persino del Frankenstein di Mary Shelley.
Si documentò specialmente sulla Transilvania, visitando mostre e consultando libri e mappe. Il suo romanzo non era certo storico, si poneva piuttosto all'interno del cosiddetto filone gotico – pur con notevoli differenze legate alla contemporaneità dell’azione – ma per essere più credibile, più terrificante nella sua apparente concretezza, non poteva non basarsi sopra un’accurata ricostruzione delle tradizioni e del folclore slavi.
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Lo stesso protagonista s’ispirava alla leggendaria figura d’un principe di Valacchia, quel Vlad vissuto nel XV secolo che era stato così crudele da meritarsi il soprannome di Dracula, che significa “figlio del diavolo”.
Questo fu il titolo della sua opera che, pubblicata dalla londinese casa editrice Constable and Company nel 1897, divenne il suo capolavoro.
Il successo immediato di Dracula fu considerevole.
Si lodò Stoker per la sua fantasia e per le minuziose descrizioni geografiche di luoghi sconosciuti alla maggioranza dei lettori inglesi, luoghi in cui, del resto, neppure Stoker medesimo era mai stato.
Quelle pagine dalla trama lineare mettevano i brividi addosso anche perché il vampiro dall'aspetto garbato d’aristocratico, a un certo punto, si trasferiva in Gran Bretagna, giungeva persino in Scozia, nella zona di Cruden Bay dove Stoker amava trascorrere le vacanze.
Van Helsing il personaggio più noto di Bram Stoker
C’era poi il lieto fine a soddisfare i gusti vittoriani, dato che il cattivo veniva sconfitto ed eliminato dai personaggi positivi. Tra questi, uno era assai caro a Stoker, quello dello scienziato esperto in vampirismo Abraham Van Helsing, al quale egli conferì il proprio nome di battesimo, – Bram è, in effetti, il diminutivo di Abraham, – e anche le sue caratteristiche somatiche, quei grandi occhi azzurri, scuri, distaccati che si fanno duri, teneri o severi secondo l’umore.
Ma il favore del pubblico è mutevole e passeggero. Stoker lo sperimentò a sue spese.
La popolarità di Dracula andò scemando e gli altri romanzi che lo seguirono non ebbero altrettanta fortuna. La maturità e la vecchiaia non furono clementi nei suoi confronti.
Morto Irving, non gli era rimasta che l’occupazione di scrivere che non gli dava gratificazioni. La sua famiglia non aveva mai condiviso le sue aspirazioni: Florence aveva spesso rimpianto un infranto avvenire borghese e il figlio Noël le somigliava.
I sogni stessi, le fantasiose immagini che convertivano la realtà in una magica evocazione di presenze orride, si erano ingigantiti, avevano assorbito ogni altro interesse e si erano trasformati in incubi.
La sua arte, inconsciamente, lo spaventava, annullando le certezze e la serenità della ragione.
Profondamente disturbato dalla depressione, esaurito, vessato da preoccupazioni economiche, Bram Stoker si spense a Londra nel 1912, a sessantaquattro anni.
Come spesso capita a molti scrittori, la meritata fama giunse quando ormai era troppo tardi, giunse postuma.
Il suo Dracula divenne uno dei libri più letti di tutti i tempi, tradotto a livello planetario e utilizzato per la sceneggiatura d’infiniti film, tra cui citiamo doverosamente il Bram Stoker’s Dracula di Francis Ford Coppola (1992) che ha voluto tributare già nel titolo un omaggio al creatore del personaggio e che vinse ben due premi Oscar (all’attore Anthony Hopkins nel ruolo di Van Helsing e al suono, costumi e trucco).
Tuttavia, gli altri 17 romanzi di Stoker restano ancora in ombra. A prescindere dal genere horror, che può piacere oppure no, noi ci rammarichiamo del fatto che siano stati dimenticati quelli d’ambientazione scozzese (almeno tre, con un buon uso dell’idioma celtico) e l’unico d’ambientazione irlandese.
The Snake’s Pass (1889) fu il suo romanzo d’esordio, ancora molto romantico, basato sulla leggenda antica di san Pádraig che scacciò i serpenti dall'Isola di Smeraldo e su quella più recente dei rivoluzionari francesi che vi nascosero un colossale tesoro. In esso c’è tutto il mondo di storie e di figure irlandesi di cui ragionava mamma Charlotte e, in tante frasi, c’è la dolcezza della lingua gaelica in cui gli sussurrava la ninnananna.