René Laënnec il bretone che rivoluzionò la medicina
Parigi, anno 1815. Ospedale di Salpêtrière. Una donna ancora giovane viene ricoverata d’urgenza. È ormai sera e molti medici hanno già finito il loro turno di lavoro. Non resta che bussare all'ultima porta in fondo al corridoio.
René Laënnec inventore dello stetoscopio (Quimper, 17 febbraio 1781 – Douarnenez, 13 agosto 1826)
Perché il dottor Laënnec, un bretone trapiantato sulle rive della Senna che veglia sempre sino a tardi accanto alle ampolline dei suoi esperimenti, sicuramente risponderà. Ecco, anche questa volta egli accorre verso la corsia. S’affretta nel silenzio dolente dei cameroni sebbene sia pallido, sebbene il suo sembiante appaia spesso sofferente.
Ha trentaquattro anni ma ne dimostra assai di più. Non si è laureato da molto tempo, da tre anni appena, perché, dopo i primi studi di medicina compiuti a Nantes, aveva deciso di praticare come assistente in un ospedale militare e di prestare poi il servizio medico nell'esercito.
I suoi occhi, la cui delicatezza nello sfiorare i drammi umani è così intensa da far trasalire, sono sovente mesti: egli deve aver visto e curato piaghe atroci, deve aver visto lo spietato sopraggiungere della morte, quando le barelle dei feriti gli venivano condotte alla fine d’ogni battaglia. Di tanto in tanto, egli tossisce e c’è chi mormora che la dura vita delle guerre napoleoniche e i rigidi inverni in tenda abbiano minato irrimediabilmente la sua salute. C’è chi mormora addirittura che sia tisico…
Finalmente, Laënnec raggiunge il capezzale della malata.
Si tratta di visitarla. Egli, che si è formato alla scuola di Carvisart, il medico di corte di Napoleone, di Pinel e di Bichet, non ama i metodi tradizionali, non si dilunga in chiacchierate sterili che forse tranquillizzano il paziente ma che non lo guariscono ed è uno strenuo sostenitore della prevenzione. E se molti suoi colleghi invocano salassi, cantaridi e ulcerativi come la panacea universale, egli rifugge da tutto ciò con orrore.
Che cosa può fare riguardo a quella donna che ansima e che suda freddo?
Prova a praticarle la percussione, un tecnica introdotta di recente, nel 1808, anche se sa già in partenza che non gli darà indicazioni sullo stato patologico perché la paziente è alquanto pingue e quel metodo di diagnosi risulta pertanto inefficace.
Egli ha qualche sospetto sulla causa del male, basandosi sul proprio occhio clinico che è ben allenato. Ma i sospetti non gli bastano. È un medico rigoroso: vuole delle certezze. Non gli resta che una via, a quel punto, ossia l’auscultazione.
René Laënnec l’auscultazione e lo stetoscopio
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All'epoca, a detta dei dottori, non c’era metodo diagnostico più ingrato. Le condizioni igieniche, specie nei sobborghi urbani, erano pessime e non era per nulla piacevole appoggiare il proprio orecchio sul torace d’un malato sporco o infestato da insetti parassiti.
A Laënnec, tuttavia, questo non importa. Ausculta di continuo i suoi pazienti, purché siano uomini. I suoi scrupoli si risvegliano quando si trova a visitare una donna.
Egli è un cattolico convinto e praticante e la sua anima è profondamente intrisa dello spirito religioso bretone. Per questo gli dispiace turbare il pudore femminile con le proprie mani o, peggio, con il proprio orecchio.
Nondimeno, la malata appena ricoverata presenta sintomi gravi ed è necessario agire in fretta. Per conciliare il suo desiderio di soccorrerla con le remore morali, egli afferra d’impeto un quaderno che ha nella borsa e lo arrotola formando un cilindro. Lo appoggia sul costato della donna e si stupisce di percepire in maniera così distinta i battiti del suo cuore, come se quello strumento casuale li avesse miracolosamente amplificati. Egli non solo diagnostica correttamente la patologia ma intuisce che si è appena verificato qualcosa di straordinario.
Nacque così, infatti, lo strumento che doveva renderlo famoso.
Nei mesi che seguirono, Laënnec provò a effettuare l’auscultazione, applicando lo stesso principio del quaderno arrotolato, mediante un semplice tubo di legno che era lungo 30 centimetri e che aveva un canale interno del diametro di 5 millimetri.
Un capo dell’aggeggio si appoggiava sul petto del malato, nella regione cardiaca o polmonare, l’altro all'orecchio del medico.
Ciò che si poteva avvertire era strabiliante: dalla semplice afonia al passaggio dell’aria negli alveoli polmonari e nei bronchi; dai moti cardiaci ai meccanismi di chiusura valvolare o al deflusso del sangue nelle cavità. Si poteva finalmente riconoscere con tempestività la polmonite, prima diagnosticata in maniera vaga se non tardiva, e avere quindi la speranza di curarla.
Laënnec denominò stetoscopio la sua invenzione.
La modificò ancora, ponendo ad una delle due estremità un piccolo imbuto, ma essa fu da subito notissima e molto diffusa in patria e all'estero, grazie anche a un trattato che egli vi dedicò nel 1819 e che fu tradotto in tutta Europa, un’opera in due volumi dal titolo chilometrico:
De l’auscultation médiate ou traité du diagnostic des maladies des poumons et du coeur, fondé principalement sur ce nouveau moyen d’exploration.
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Ben presto si giunse ad applicazioni impensate: nel 1838, ad esempio, proprio qui in Italia, si cominciò ad utilizzare lo stetoscopio per percepire i battiti cardiaci fetali.
Ancora oggi esso viene usato nella sua forma primitiva, così come lo aveva concepito Laënnec, in molte parti del mondo (in Asia, in Africa), mentre quello che vediamo al collo dei nostri medici di famiglia differisce certo per forma, è stato perfezionato, ma sfrutta esattamente il medesimo principio del suo antenato del 1815 che fu il primo oggetto in assoluto di tecnologia diagnostica e che cambiò del tutto il rapporto tra medico e paziente, rendendo più precise le diagnosi stesse e razionalizzando con l’osservazione e con l’analisi la medicina che aveva ancora un’impostazione metafisica galenica.
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Si è affermato che l’invenzione dello stetoscopio abbia avuto, per la nostra salute, un’importanza maggiore dell’introduzione della radiografia.
Perché, se a noi moderni questo strumento può apparire semplice, quasi rudimentale, non lo era affatto per la mentalità dell’epoca. Era, al contrario, un arnese di scandalo.
Nonostante la popolarità di Laënnec, che nel 1823 aveva ottenuto la cattedra di clinica medica presso il rinomato ospedale della Charité, non a tutti piaceva il suo stetoscopio.
I malati, spesso, ne fraintendevano l’utilità, scambiandolo per un amuleto magico, per una sorta di marchingegno taumaturgico.
Laënnec andava su tutte le furie quando, visitando un degente con lo stetoscopio, questi commentava con aria confortata:
«Oh, professore, dacché lei mi ha messo quell'affare sul cuore mi sento già meglio!»
Gli avversari più agguerriti dello stetoscopio furono comunque i medici.
Avvezzi a un armamentario prevalentemente chirurgico e poco zelanti nell’aggiornarsi dopo aver già studiato tanto per conseguire la laurea, erano refrattari all’idea di dover affinare l’orecchio – pratica che a volte richiedeva anche anni – per captare qualcosa all’interno di quel tubicino.
La certezza, poi, della diagnosi, anziché soddisfarli, li irritava.
Avviliva il loro intuito, tanto decantato, che contribuiva a donar loro fama e reputazione presso la collettività, e li costringeva a essere chiari con i pazienti, mentre prima potevano rifugiarsi nelle buone parole consolatrici, perché era proprio lo stetoscopio, in molti casi, a cancellare le ultime speranze di guarigione.
Se lo stetoscopio vinse la sua battaglia contro l’oscurantismo retrogrado fu grazie all'opera instancabile del suo inventore e anche alla notorietà che questi meritò come patologo. Il suo nome resta legato a una malattia a cui non erano estranee le condizioni sociali dell’Ottocento.
L’industrializzazione con la conseguente crescita demografica nelle grandi città e il cambiamento nei ritmi di lavoro e di produzione creano presupposti di squilibrio.
Gli uomini spesso si sentono emarginati, più soli di quando vivevano in campagna e si svegliavano o andavano a dormire con il canto del gallo. Fatalmente indulgono al bere. L’alcolismo porta con sé disturbi sinora ignoti o, comunque, riguardanti un più esiguo numero di persone.
Essi sono gravi, coinvolgono il fegato e Laënnec per primo li definisce come cirrosi.
Pochi sanno che un altro nome della cirrosi epatica è proprio quello di cirrosi di Laënnec, in omaggio al suo scopritore.
Anche il termine tubercolosi lo dobbiamo a lui.
Con esso egli volle spazzare via tutti quei sostantivi – tisi, lupus volgare, scrofola, consunzione, etc. – che, tra Settecento e Ottocento, popolavano le definizioni mediche per una malattia che, invece, andava considerata in maniera univoca.
Tuttavia non ne comprese la causa, a differenza di quanto avrebbe fatto Koch, come non comprese quella dell’angina pectoris, di cui sottovalutò la gravità ritenendola un fenomeno essenzialmente nervoso.
Ma René Laënnec era figlio del suo tempo.
Come tutti gli altri luminari che si successero in quegli anni all'ospedale della Charité, era convinto che le malattie fossero degenerative e dipendessero da fattori ereditari. Non le ritenne mai correlate con un contagio virale o microbico. Fu forse per questo motivo, perché egli si espose troppo e non si risparmiò mai, che contrasse la tubercolosi.
L’incalzare del morbo cominciò pian piano ad avere effetti devastanti sulla sua attività professionale. Accorrevano ad affollare il suo studio malati da ogni angolo della Francia e egli, a volte, stava così male che non riusciva neppure a riceverli. Allora si rifugiava nella sua adorata Bretagna, in attesa che le crisi passassero e gli ritornassero le forze.
Sapeva, lui che era così acuto nelle diagnosi, d’essere ormai condannato. E quando lo stadio terminale della tubercolosi lo costrinse a lasciare definitivamente il suo lavoro, fu proprio nella nativa Cornouaille che egli si ritirò.
La sua casa di campagna era a Kerlouanec, presso Douarnenez. Essa era immersa nel verde e nella quiete. Una breve passeggiata la separava dalla cappella di Sainte-Croix, un luogo di pace e di preghiera che fu sempre tanto caro a Laënnec. Quando egli congiungeva le mani davanti a quell'altare, gli era più lieve deporre le proprie sofferenze, il proprio martirio di uomo e di scienziato, ai piedi della croce di Cristo.
René Laënnec si spense a Kerlouanec nel 1826, in un’assolata giornata d’agosto.
Aveva soltanto quarantacinque anni. Ancor oggi si può visitare la sua tomba nel vicino cimitero di Ploaré.
Il ritratto che con queste poche righe gli abbiamo voluto dedicare è un tributo non tanto al suo indiscusso genio quanto al tesoro di sensibilità e di ideali che egli portava racchiuso nel cuore.