Jules Verne Rosso e oro
Verne era bretone. L’affermazione ci stupisce perché il nome di questo scrittore del passato è legato alla nostra infanzia, agli anni dei sogni che già s’affacciano sull’adolescenza.
Jules Verne vita, libri e misteri in rosso e oro
Allora, lo chiamavamo Giulio Verne, con la pronuncia italiana, perché, forse, non c’eravamo accorti che fosse straniero. Volendo essere del tutto sinceri, qualche volta l’abbiamo confuso con Emilio Salgari, attribuendo all'uno i romanzi dell’altro…
Ma Verne era bretone. Un bretone testardo di Nantes. Di un bretone aveva le virtù, quella sua ostinata forza di volontà, la precisione nella cura dei particolari, l’amore per il lavoro e quell’immaginazione fluida e assoluta che suscita meraviglia e che mette i brividi… I vizi, al contrario, erano quelli di un francese della sua epoca.
Da ragazzi, leggendo le sue opere, abbiamo spesso immaginato che a concepirle fosse stato un uomo perfetto come i suoi personaggi, fiero e ardente come Michele Strogoff. Invece fu un uomo come tanti. Si trovò a vivere nella Francia del Secondo Impero, in cui era comodo definirsi laico e iscriversi a una loggia massonica.
Jules Verne giovane
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Della Francia ebbe il culto, tanto da guardare con disprezzo gli inglesi e con odio i tedeschi, essendo stato guardacoste durante la guerra franco-prussiana.
Eco di queste disposizioni d’animo, pur attenuate dall’ironia, si trovano nei suoi lavori: chi di noi non ricorda i caratteri vividi, in gustosa contrapposizione, del nobile inglese Phileas Fogg e del suo servitore francese Passepartout ne Il giro del mondo in ottanta giorni? Per non parlare dell’efficace dicotomia tra il giornalista britannico, flemmatico Harry Blount e il corrispondente provenzale, arguto Alcide Jolivet, che chiosa tutto il viaggio di Michele Strogoff da Mosca a Irkutsk.
Si è accusato Verne d’essere stato antisemita:
nel famigerato “Affaire Dreyfus” non stentò a schierarsi tra i colpevolisti, scandalizzando l’amico e ammiratore Zola.
Ma anche in questo era uomo del suo tempo:
troppi scrittori, purtroppo, nella letteratura francese di fine Ottocento non si facevano scrupolo di lanciare frecciate contro gli ebrei e di dipingerli con tratti che dalla caricatura sconfinavano nel ritratto infamante.
Più vile ci appare la figura dell’autore nella sua dimensione puramente umana, quella che riguarda la famiglia e gli affetti. Forse fu la dura gavetta che dovette fare per affermarsi a spogliarlo in parte della sensibilità.
Tutto quel poco che gli rimase, fu riversato nei suoi libri, nei quali l’amore filiale o coniugale colpisce per la finezza con cui viene descritto. Egli, tuttavia, non si sentì amato e non fu capace d’amare.
Apparteneva a una classe sociale privilegiata. Borghese, era figlio dell’avvocato Pierre e di Sophie Allotte, e aveva per nonno materno un grande armatore di Nantes.
Era destinato a seguire le orme paterne, diventando un principe del foro. Ma già a undici anni Jules fuggì di casa e s’imbarcò per le Indie.
Il viaggio d’avventura non gli riuscì perché il severo padre si precipitò furente a recuperarlo al primo scalo. E dire che il ragazzo si giustificò assicurando che voleva solo andare a prendere una collanina di corallo per la cugina…
Fattosi adulto, strappò ai genitori il permesso di proseguire gli studi di Giurisprudenza a Parigi.
La capitale lo ammaliò e lo rese ebbro.
Egli si gettò a capofitto nella vita notturna, dissipando quel poco che la famiglia gli passava per mantenersi. Adorava il teatro, tanto che cominciò a scrivere proprio come autore drammatico e librettista, ma non aveva neppure un abito da sera per assistere alle rappresentazioni. Se lo faceva prestare, a sere alterne, da un altro bretone di Nantes, che era suo compagno di stanza, un certo Edouard Bonamy.
Le ristrettezze economiche in cui era costretto a vivere stravolsero i suoi ideali:
Verne si convinse ben presto che, per risolvere tutti i suoi problemi, bastasse sposare una moglie ricca, che gli recasse una formidabile dote.
Altro che l’amore di purezza adamantina tra Michele Strogoff e la sua dolce Nadia!
Si laureò ma si rifiutò di fare l’avvocato. S’imbatté piuttosto in Honorine Morel, una vedova di ventisei anni che aveva due pargoli da crescere, con l’indispensabile attrattiva d’essere figlia d’un dovizioso proprietario terriero d’Amiens.
Jules Verne e Honorine Morel
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S’affrettò a sposarla, credendo di potersi finalmente dedicare alla passione letteraria. Ma il suocero, che aveva idee assai pratiche, lo costrinse a entrare in Borsa e a fare l’agente di cambio. Solo la buona riuscita dei primi romanzi lo affrancò dal lavoro impiegatizio.
Il successo gli regalò una vita molto mondana:
gli permise di comprarsi ville e vari yacht.
Poté viaggiare, come aveva sempre desiderato. Il suo umore passava facilmente dalla giovialità, dall’euforia di ricevere gli amici, tra cui vantava Dumas padre e i viaggiatori Arago e Nadar, alla malinconia, alla patologica paura delle malattie.
Di tanto in tanto lo coglievano delle paralisi facciali, che gli deformavano il sembiante, e si lamentava di continuo della colite e di innumerevoli disturbi più o meno immaginari. Malgrado ciò, trascurò il diabete e fu proprio quello a portarlo alla tomba.
Era un ambizioso e non lo appagavano mai gli onori che gli venivano tributati. Eppure subì lo smacco di non figurare tra i membri dell’Académie Française, come bramava con tutto sé stesso.
Nelle mire politiche era integro e sincero:
era un socialista convinto anche se moderato, con impennate anarchiche e saint-simoniane.
Ma dovette accontentarsi della carica di consigliere presso la municipalità di Amiens.
Come altri romanzieri celebri, fu un pessimo padre. Lui che scrisse per la gioventù, fornendo modelli di comportamento e di comprensione che hanno valicato i secoli, non seppe capire il figlio Michel.
Dissapori e contrasti frequenti spinsero Verne all’eccesso:
egli mandò il ragazzo prima in riformatorio, non contento lo fece rinchiudere in una prigione e, da ultimo, deliberò di farlo deportare per due anni nelle colonie.
Non si possono giudicare a posteriori motivazioni o attenuanti di un legame di sangue che degenera: restano l’amarezza e la solitudine, quella che circondò come una trincea gli ultimi anni di vita di Verne e che, per quanto terribile sia, non ci sorprende.
Premesse tali considerazioni, dovrebbe infine sorprenderci che Verne sia stato un genio?
No, perché lo fu senz’altro, a dispetto delle miserie d’ogni vicenda umana. E fu un genio bretone.
È spontaneo sottolineare quest’appartenenza etnica. Basta aprire uno dei suoi romanzi perché essa balzi all’occhio. Lo stile che li sorregge, che infonde loro un’anima, è un misto di realtà e di fantasia, con un linguaggio chiaro, a volte epico, a volte trasognato, che richiama le narrazioni celtiche.
Come se Verne avesse ereditato il talento di chi, sin dalla notte dei tempi, creò miti e leggende e inconsciamente avesse accettato di proseguirne l’opera.
Celtico è anche il rapporto che lo scrittore ha con la natura, che non fa mai da sfondo ai personaggi, ma interagisce con essi come una forza multiforme, ora indomabile, ora pronta a sottomettersi alle conquiste del sapere e del lavoro umano.
Celtica la fame di scoprire e d’indagare. Verne aveva la mania di raccogliere e d’archiviare tutto ciò che veniva scritto sulle innovazioni tecniche e sulle scoperte scientifiche.
Jules Verne il padre della fantascienza
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Non dimentichiamo che, come lui stesso dichiarò, egli apparteneva alla generazione compresa tra gli ingegni di Stephenson e di Emerson. Così, sebbene non avesse alcuna dimestichezza con la chimica, con la fisica o con la meccanica, essendo un leguleio, non poté ignorare i cambiamenti.
Si sentì in dovere di sposarli alla letteratura perché essi calamitavano l’interesse dei lettori, perché facevano vagheggiare un universo senza limiti, senza contraddizioni, senza ancora rovesci della medaglia… Inventò un genere che nessuno prima d’allora aveva tentato.
Qualcuno lo definisce il padre della fantascienza, insieme con il rivale Herbert Wells, ed è un merito che dev'essergli attribuito. Ma non nella sua valenza riduttiva. Perché Verne non sognava solamente mondi futuri, ideando macchine e apparecchi strabilianti.
Era persuaso piuttosto che, come sintetizzò nel suo celebre epitaffio: “Tutto ciò che è possibile sarà fatto”, le scoperte da lui sfiorate con la penna e precorse su basi scientifiche rigorosamente analizzate e approfondite sarebbero state imminenti.
I libri di Jules Verne
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Leggere il suo romanzo Dalla Terra alla Luna, ora che più di cinquant'anni ci separano dalla conquista del nostro satellite, non è puerile o anacronistico: è, al contrario, un’impressionante testimonianza di come, sul finire dell’Ottocento, i traguardi delle umane aspirazioni non erano stati ipotizzati a caso.
Meno noto è forse il libro del 1880 intitolato I cinquecento milioni della Begum, eppure sarebbe da riconsiderare secondo la nostra visione moderna, di uomini che hanno alle spalle due guerre mondiali, la guerra fredda e varie altre operazioni belliche, dal Vietnam all’Iraq… Perché in esso c’è l’utopia di una città pacifica costruita sulla fratellanza e c’è il terrore insito in una seconda città, dove tutto è gerarchizzato e dove ci sono armi terribili, tra le quali missili usati a scopo militare proprio come nelle odierne guerre tecnologiche.
Tra romanzi veri e propri e racconti, Verne pubblicò un’ottantina di opere in una collana che si chiamava Le voyages extraordinaires, a sua volta divisa in due parti: Les mondes connus, con libri a sfondo realistico, e Les mondes inconnus, che conta pochi e famosissimi titoli, quali Ventimila leghe sotto i mari o Viaggio al centro della Terra.
Dapprima fu l’editrice Hetzel a stamparli, sostituita mezzo secolo dopo dalla Hachette, che li volle accomunati dalle indimenticabili copertine contornate d’oro e di rosso.
Come erano accomunati da un medesimo, indomabile spirito d’avventura. Spirito che non viene mai meno anche se è riscontrabile una spaccatura tra i romanzi giovanili, più spensierati e inclini allo humour, e quelli degli anni Ottanta, in cui prepondera la riflessione.
Verne matura artisticamente, accorgendosi della sofferenza dei popoli, professandosi antischiavista e studiando le legittime aspirazioni nazionalistiche e indipendentistiche, che riproduce nell'esatto contesto sociale.
Nascono in questo modo opere come Mathias Sandorf, d’ambientazione ungherese, o Famiglia senza nome, sull’insurrezione franco-canadese contro gli inglesi.
Da bretone qual era, narra della Scozia ne Le Indie Nere, un libro singolare sulla vita in miniera. Esso ha per eroi semplici operai che si nobilitano attraverso il lavoro, perché donano all'umanità un’occasione di progresso.
E narra dell’Irlanda.
P’tit Bonhomme è un capolavoro che difficilmente si trova sugli scaffali delle librerie e che andrebbe riscoperto.
È un’analisi lucida ed è una denuncia. Oppone la povera gente d’Irlanda all'opulenza dei proprietari terrieri. Raramente, specie nell'Ottocento, si è penetrato il martirio di un popolo con altrettanto acume.
Ma Verne era bretone: sentiva come un bretone e non avrebbe potuto fallire! Con il suo rapido tratto d’inchiostro, scrisse un romanzo che è, soprattutto, l’omaggio alla storia d’Irlanda tributato da un autentico, estroso celta.
Biografia di Jules Verne
La vita: cronologia essenziale
1828, 8 febbraio: Jules Verne nasce nella città bretone di Nantes.
1834: primi studi. La maestra è la vedova d’un capitano di lungo corso la quale, con i suoi racconti, eccita la fantasia del piccolo Jules.
1836: entrata in seminario insieme al fratello Paul.
1839: il ragazzo s’imbarca clandestinamente sulla nave La Coralie ma viene riacciuffato dal padre.
1844: iscrizione al liceo di Nantes.
1847: primo esame di diritto a Parigi.
1848: una sua opera drammatica viene rappresentata a Nantes, con il plauso di amici e conoscenti.
1848, 12 novembre: trasferimento definitivo a Parigi.
1849: Verne ha occasione di conoscere Dumas padre e d’essere da lui incoraggiato.
1850: la laurea e il conseguente rifiuto di fare l’avvocato.
Il primo romanzo
1852: stesura del primo romanzo, Un viaggio in pallone. Verne diventa segretario di Edmond Seveste, che è direttore del Théâtre Lyrique.
1853: compone il libretto per un’opera lirica.
1856: su raccomandazione del futuro suocero, trova lavoro presso un agente di cambio di Parigi.
1857: sposa Honorine Morel e raggiunge la tranquillità finanziaria.
1859: compie un viaggio in Inghilterra e, soprattutto, in Scozia.
1861: viaggio in Scandinavia.
1862: presenta all’editore Hetzel il romanzo Cinque settimane in pallone, che viene accettato. Va in stampa l’anno successivo e il suo folgorante successo procura a Verne un contratto di pubblicazione ventennale.
1864: esce Viaggio al centro della Terra.
1865: è l’anno di Dalla Terra alla Luna.
1866: Verne acquista una casa presso l’estuario della Somme e compra una barca con cui navigare sul Canale della Manica.
1867: insieme al fratello Paul, s’imbarca sul vapore Great Eastern, per assistere alla posa del cavo telefonico transatlantico.
1869: pubblica Ventimila leghe sotto i mari.
1870-1871: mentre è guardacoste nella guerra franco-prussiana, compone ben quattro nuovi romanzi.
1872: decisione di stabilirsi prevalentemente in provincia, nella città di Amiens.
1873: Il giro del mondo in ottanta giorni.
1874: L’isola misteriosa completa la trilogia di cui fanno parte anche Ventimila leghe e I figli del capitano Grant (1868).
1876: Michele Strogoff, con il sottotitolo Da Mosca a Irkutsk, è il più romantico dei suoi romanzi.
1877: ambientazione scozzese per il libro Le Indie Nere.
1878: altro titolo celebre, Un capitano di quindici anni.
1886: misterioso attentato. Verne resta ferito da due colpi di pistola. Immediato abbandono della vita mondana.
1889: Elezioni presso la municipalità d’Amiens. Verne viene eletto in una lista della sinistra moderata.
Ultimi anni di di Jules Verne
1893: dedica all’Irlanda P’tit Bonhomme.
1905: Il faro in capo al mondo e L’invasione del mare sono i suoi ultimi romanzi.
1905, 24 marzo: Jules Verne muore ad Amiens, in Piccardia.
Un giallo: due colpi di pistola
Verne scrisse anche libri gialli, come Un dramma in Livonia. Ma non è questo il caso. Il mistero che vi sottoponiamo non si esaurisce nelle pagine di un romanzo. È bensì un fatto reale, un episodio oscuro che rivoluzionò la vita stessa dello scrittore.
Tutto accadde nel 1886… Sì, ma cosa accadde di preciso? Dopo più di un secolo, non lo si sa ancora con certezza.
Qualcuno avvicinò Jules Verne e, a bruciapelo, gli sparò due colpi di pistola.
Egli s’accasciò a terra, ferito, mentre l’aggressore si dileguava. Aveva il passo svelto di un giovane e Verne, sicuramente, doveva averlo riconosciuto. Eppure non tradì mai la sua identità. Con il potere che gli derivava dalla fama e dalle sue simpatie politiche, mise a tacere i pettegolezzi e soffocò lo scandalo.
I sospetti dell’opinione pubblica caddero sul nipote Gaston, sia perché era psicolabile, sia perché aveva pretese finanziarie assurde nei confronti dello zio, sia perché fu di lì a breve internato in manicomio… Anche oggi, la maggior parte degli studiosi di Verne tende ad accreditare questa ipotesi.
Conferme tuttavia non ce ne sono. Anzi, il comportamento che Verne tenne dopo l’attentato sembrerebbe smentirla. Rimessosi dalle ferite, egli decise d’abbandonare la buona società parigina.
Lui, che s’era divertito ad organizzare feste e festini, che aveva invitato gli amici a balli in maschera scoppiettanti di luce e di sorprese, si rintanò come un esule ad Amiens.
Possibile che lo spavento sia stato sufficiente, da solo, a impressionarlo in maniera così radicale? Verne era ipocondriaco, d’accordo, eppure aveva convissuto sino ad allora con le sue fobie, conciliandole con la vita di società. Qual era stata la vera scintilla capace di trasformarlo?
Se fosse stato suo nipote a colpirlo, una volta relegato in manicomio i timori dello scrittore avrebbero dovuto dissolversi come nebbia tra i raggi del sole. Al contrario, essi perdurarono, forse sino alla fine dei suoi giorni. Come se una minaccia avesse continuato a incombere. Come se ci fosse stato un pericolo sempre presente a consigliare la prudenza, nella monotonia solitaria della sua tenuta di Amiens.
Rivalità o politica? Contrasti familiari o vendette suggerite dall'invidia? Donne capaci di suscitare folli gelosie o giovinetti un po’ ambigui?
Se Verne aveva un segreto, seppe custodirlo così bene che non ne resta traccia. Solo la fantasia d’un bravo narratore potrebbe rievocarlo, mutando il maestro nel protagonista d’un giallo storico.