Origini celtiche di un uomo medioevale Pierre Abélard, il bretone

Sono trascorsi 905 anni dalla celebre passione tra Abelardo ed Eloisa, che commosse già i contemporanei e che suscita tutt'ora struggenti romanticismi, tanto da far passare in secondo piano quello che fu il pensiero del filosofo. Noi vorremmo parlarvi di Pierre Abélard sottolineando il rapporto d’odio e d’amore che lo legò alla sua terra natale.

Testo di Maura Maffei

Pietro Abelardo (Pierre Abélard)

Statua di Pietro Abelardo (Pierre Abélard) di Jules Cavelier Palazzo del Louvre, Parigi
Statua di Pietro Abelardo (Pierre Abélard) di Jules Cavelier Palazzo del Louvre, Parigi

Ego igitur, oppido quodam oriundus quod in ingressu minoris Britannie constructum, ad urbe Namnetica versus orientem octo credo miliariis remotum, proprio vocabulo Palatium appelatur, sicut natura terre mee vel generis animo levis, ita et ingenio extiti et ad litteratoriam disciplinam facilis.”
Così comincia uno dei più famosi testi di Pierre Abélard, in forma epistolare e conosciuto con il titolo di Historia calamitatum, e in queste poche parole è riassunta l’essenza d’una vita.

Scrive, infatti, Abelardo:

Nacqui dunque in una cittadina posta ai confini della Bretagna, distante credo otto miglia da Nantes e chiamata Palais, e fu dalla natura della mia terra, dal suo spirito vivace che io trassi il mio ingegno e la facilità verso le materie letterarie.

Quest’ammissione è il più grande omaggio che un uomo può tributare alla sua terra d’origine, ossia quello d’averlo forgiato, d’avergli infuso un’indole inconfondibile e d’avergli donato le giuste predisposizioni.

Quando si diventa celebri, e Abelardo fu in terra di Francia uno dei personaggi di maggior spicco a cavallo tra XI e XII secolo, è fatale attribuire alle sole proprie forze il successo conquistato. Ci si dimentica di tante cose, si confondono i punti di riferimento. Ma Abelardo, che fu un eccellente maestro di logica, la disciplina del corretto ragionare, non poteva scordare la Bretagna. Un po’ perché, all'epoca, era un’entità politica distinta dalla Francia; un po’ perché il carattere celtico la rendeva diversa da ogni altra terra. Egli sapeva d’appartenerle, d’avere nel sangue l’irruenza, l’irrequietezza e la passione dei suoi antenati guerrieri.

Era il figlio maggiore d’una famiglia nobile ma rinunciò alla primogenitura e a tutti i beni paterni perché la carriera militare non faceva per lui.

Erano altre le armi che aveva imparato ad affinare, quelle della filosofia, e con la stessa spigliatezza bellicosa con cui avrebbe maneggiato una spada sfoderò la sua intelligenza e il suo acume folgorò la Francia.

Spirito libero oltre ogni dire, scelse l’iter ecclesiastico perché era l’unico che gli avrebbe permesso di dedicarsi totalmente ai suoi studi.

Era la Chiesa, in effetti, che gestiva il sapere e le scuole filosofiche.

Giovanissimo, divenne uno dei più apprezzati insegnanti. Nel fondo del suo cuore, tuttavia, restò sempre una specie di druido. Franco nel sentimento religioso, non accettava imposizioni che non capiva.

La dialettica era lo strumento per progredire, non la placida metabolizzazione d’elucubrazioni altrui.

Contestò anche Arnaldo di Champeaux, che fu suo maestro a Parigi, alla scuola di Notre Dame. E riuscì a ottenere la sua cattedra, quando questi divenne vescovo.

Abelardo parla agli studenti intorno a Melun, 1837 di J. A. Benouville
Abelardo parla agli studenti intorno a Melun, 1837 di J. A. Benouville

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Il suo successo presso gli allievi era basato sopra l’estrema modernità delle sue lezioni. Siamo nel Medioevo, periodo in cui tutto è oggettivo e le certezze sono granitiche.

Quasi che vi fosse stato catapultato a ritroso da un secolo assai più tardo, egli rivalutava la soggettività del singolo. Ciò ebbe implicazioni originali soprattutto in etica, ove Abelardo sostenne la tesi che le azioni possono essere buone o cattive non a priori ma in relazione alla volontà che le ha determinate. Non è possibile dunque sbagliare se s’ignora che quanto si è commesso è un errore.

Era inevitabile che, con le sue idee progressiste, il giovane teologo bretone presto o tardi avrebbe dato fastidio a qualcuno. A dire il vero, il primo grosso guaio andò a cercarselo da solo.

Pietro Abelardo ed Eloisa (Pierre Abélard et son élève Héloïse -1882 di Edmund Blair Leighton)
Pietro Abelardo ed Eloisa (Pierre Abélard et son élève Héloïse -1882 di Edmund Blair Leighton)

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Si chiamava Eloisa e aveva soltanto sedici anni. Era la fanciulla più bella e più colta che ci fosse a Parigi e, forse, nell'Europa intera.

Nipote o, probabilmente, figlia naturale del canonico di Notre Dame Fulberto, fu da quest’ultimo affidata all'insegnamento di Abelardo in cambio di vitto e alloggio.

Il canonico, infatti, era famoso per essere assai spilorcio e non gli pareva vero di poter affidare la splendida intelligenza di Eloisa al miglior maestro di Francia e per giunta senza spendere neppure un soldo!

Aveva però sottovalutato l’avvenenza di Abelardo.

Era da tutti stimato troppo serio, troppo studioso per perdersi dietro alle sottane e poi, via, aveva vent'anni più di sua nipote…

Abelardo ed Eloisa
Abelardo ed Eloisa

Al contrario, il sangue bretone che gli scorreva nelle vene alimentò il fuoco d’una passione travolgente, altrettanto assoluta e altrettanto celtica di quella fra Tristano e Isotta, e la bellissima adolescente lo corrispose con tutta sé stessa perché non era soltanto l’attrazione fisica a spingerli l’uno nelle braccia dell’altra ma c’era anche una straordinaria intesa intellettuale e spirituale ad avvincerli.

Abelardo, in quanto chierico, avrebbe potuto sposare Eloisa.

Ma che ne sarebbe stato del suo prestigio come filosofo?

In un ambiente in cui soltanto lo stato consacrato aveva autorevolezza, un uomo sposato non avrebbe avuto voce in capitolo. Fu la stessa Eloisa a pretendere che il loro rapporto fosse vissuto di là dalle convenzioni sociali, alimentato da un amore più forte dei vincoli umani e più forte dei vincoli divini. Abelardo sbagliò a darle retta.

Quando Eloisa non poté più nascondere la maternità che le sbocciava in grembo, il canonico Fulberto pretese la necessaria riparazione. I due amanti prima fuggirono in Bretagna e poi decisero di sposarsi segretamente, all'insaputa di tutti, affinché Abelardo potesse conservare la sua cattedra. Ma un simile espediente avrebbe potuto calmare le ire di Fulberto?

All'opposto, le acuì perché un sacramento ignoto non bastava a levare di dosso a sua nipote l’epiteto di concubina. Furioso, volle farsi giustizia da sé.

Chiamò un paio di sicari e li istruì. Nottetempo, essi sorpresero Abelardo nel sonno e lo evirarono. Tutta Parigi andò a compiangerlo, la mattina dopo, e ciò fu per lui più doloroso della piaga stessa. Il suo sogno d’amore era finito. E con esso la sua carriera.

Come sempre aveva fatto in quegli anni, quando era stato malato, egli andò a ancora una volta leccarsi le ferite in Bretagna. Aveva già deliberato di farsi monaco e impose la stessa sorte a sua moglie, che non l’accettò con altrettanta rassegnazione.

La separazione di Abelardo e  Eloisa di Angelica Kauffmann, prima del 1780 Musée de l'Ermitage
La separazione di Abelardo e Eloisa di Angelica Kauffmann, prima del 1780 Musée de l'Ermitage

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In Bretagna volle che fosse allevato il figlio da lei partorito, quel Pierre Astralabius su cui la storia è avara di notizie, perché la Bretagna gli avrebbe dato il coraggio di vivere lontano dai suoi sventurati genitori.
Avrebbe anche voluto essere un monaco bretone… Adesso che era un povero eunuco, era più facile per i suoi detrattori attaccarlo.

Le critiche che, un tempo, si erano mantenute guardinghe, ora fioccavano palesi.

Lo raggiungevano nella solitudine del monastero di Saint-Denis e, nel 1121, gli valsero la condanna per eresia al Concilio di Soissons perché, pur con una certa qual prudenza, aveva applicato il metodo logico alla Santissima Trinità!

Avrebbe voluto vivere da eremita nell'oratorio del Paracleto, a Troyes, ma i molti studenti che erano giunti a circondarlo cominciavano ad infastidirlo.

Saint Gyldas de Rhuis
Saint Gyldas de Rhuis

Ora più che mai il pensiero della Bretagna non gli dava tregua. Era convinto che solo se vi fosse tornato avrebbe raggiunto la pace cui anelava.
Si rifugiò a Saint Gyldas de Rhuis, nel vescovado di Vannes, laddove la costa era isolata e selvaggia, e per dieci anni fu l’abate di quel convento.

Dieci anni in cui imparò a odiare la sua terra. Non era preparato a quel genere di Bretagna, così diversa dalla sua Nantes che era già una porta aperta sulla Francia. Egli, che si era sempre stimato bretone, s’accorse di non comprendere la lingua celtica che parlavano i suoi monaci. Lingua difficile, lingua barbara per le sue orecchie avvezze al latino.

Abelardo, inoltre, non era tipo da venire a patti con la propria coscienza.

Era integro e orgoglioso come un autentico guerriero gallico. Quando aveva scelto d’essere monaco, aveva anche scelto d’esserlo sino in fondo, senza compromessi. Non poteva tollerare che i suoi frati tenessero concubine nelle celle e che avessero un concetto del cristianesimo a proprio uso e consumo, molto, troppo celtico, se vogliamo, ma non ortodosso.

Si rese inviso a tal punto che i fraticelli, tutt'altro che miti, tentarono a più riprese d’avvelenarlo. Esasperato, in una notte di tempesta si fece aiutare dal fratello e fuggì attraverso un passaggio segreto. Fuggì per sempre dalla Bretagna ma non riuscì a smettere d’essere bretone.

Quelli successivi avrebbero potuto essere per lui anni di consolazione. Era rientrato a Parigi, per insegnare, e l’intera vita culturale francese era ormai influenzata dal suo pensiero. Aveva rivisto Eloisa, diventata badessa, e le aveva donato l’oratorio del Paracleto, affinché vi si potesse ritirare con le sue monache.

Ne era seguito un carteggio memorabile che è tutt'ora croce e delizia dei filologi, in cui i due antichi sposi ci appaiono segnati dalla sofferenza e dagli anni trascorsi, forte del suo cammino spirituale lui e debole perché sopraffatta dai ricordi lei.

Sennonché il primo maestro di Francia, sempre incaponito nella logica che applicava con disinvoltura tanto alle cose sensibili quanto a quelle trascendenti, finì con il pestare i calli al primo e più illustre Santo del suo tempo.

Bernard di Clairvaux era rientrato in patria nel 1138, dopo essere stato a Roma per ricomporre lo scisma tra il papa Innocenzo II e l’antipapa Anacleto. Quando si rese conto che la maggior parte degli intellettuali dell’epoca si stava… abelardizzando, montò su tutte le furie.

Bernard di Clairvaux (san Bernardo)
Bernard di Clairvaux (san Bernardo)

Qualche storico ha voluto vedere nel contrasto tra Bernardo e Abelardo, molto interessante dal punto di vista umano e filosofico, il frutto d’una frattura ben più profonda, quella tra la Chiesa romana, di rigore agostiniano, e quella celtica, improntata sulla libertà patriciana.

Quest’analisi è comunque riduttiva, perché non tiene conto della complessa personalità dei due protagonisti. Sarebbe un errore fare di san Bernardo un oppositore del cristianesimo d’ispirazione celtica, lui che considerava quale modello san Malachia d’Ard-Macha, vescovo primate della Chiesa d’Irlanda e noto per il suo desiderio di conciliare la liturgia continentale con gli usi dell’Isola di Smeraldo.

Fu san Malachia a introdurre in Irlanda il sacramento della Cresima e il canto dei salmi durante le funzioni, pur mantenendo inalterati il fervore e la spiritualità della sua terra.

Bernardo lo ammirava sinceramente e quando morì, nel 1153, volle essere sepolto a lato di san Malachia, perché il vescovo irlandese gli era spirato tra le braccia cinque anni prima ed era stato tumulato ai piedi dell'altar maggiore di Clairvaux.

D’altra parte, Abelardo non si sentiva campione d’una mentalità celtica; non l’aveva sposata intenzionalmente ma l’aveva assorbita con il latte materno. L’essere bretone non era per lui un partito preso, bensì il trampolino di lancio su cui aveva fatto rimbalzare la propria, personale originalità.

Perché, allora, Bernardo se la prese tanto con Abelardo?

Non per invidia e neppure per una sorta di privata antipatia, perché Bernardo, a dispetto del suo caratteraccio, santo lo fu davvero, ed è stato uno dei più grandi Santi della storia!

Obiettivamente le idee di Abelardo, fervente cristiano ma un po’ troppo conscio della sua superiorità intellettiva, erano tali da far perdere la pazienza anche a un Santo…

Come avrebbe fatto senza dubbio un san Colombano, figura per molti versi affine a quella di Bernardo, questi si scagliò contro tesi che minavano l’ortodossia della fede.

Come si poteva sostenere che, a rigor di logica, bisognava far ordine all'interno della Santissima Trinità, dando somma potenza al Padre, minor potenza al Figlio e privandone del tutto lo Spirito Santo, riducendo Iddio a una gerarchia nella quale, tra l’altro, non poteva neppure entrare l’umanità di Cristo, presente solo in specie divina? E il problema del libero arbitrio?

Come si poteva tollerare che Abelardo avesse spinto così in là la sua analisi da sganciarlo dalla Grazia santificante? E il Pater Noster? Si poteva permettere a Pierre Abélard di mutare le parole stesse di Gesù, chiamando il pane nostro quotidiano pane supersustanziale? Bernardo aveva certo in mente le vecchiette della sua Borgogna: come avrebbero potuto biascicare, pregando, pane supersustanziale?

San Bernardo presentò contro Abelardo diciannove capi d’accusa che riguardavano altrettante sue proposizioni e il teologo bretone fu nuovamente condannato al Concilio di Sens.

Per Pierre Abélard questo fu un colpo terribile, peggiore verosimilmente dell’evirazione.

Tutta la sua dignità bretone si ribellò contro la severità refrattaria di Bernard di Clairvaux.

Accolto da fra’ Pietro, abate di Cluny, il monastero che all'epoca rivaleggiava con quello di Clairvaux, egli trascorse in solitudine gli ultimi due anni della sua esistenza terrena.

Tormentato nel fisico da un morbo che si sospetta fosse la malattia di Hodgkins, egli scrisse un’opera toccante che s’intitolava Carmen ad Astralabium filium ed ebbe tanto tempo per meditare.

All'orgoglio d’una vita imparò a contrapporre l’umiltà della morte, che stava sopraggiungendo. Non c’erano più tesi da difendere, giuste o sbagliate che fossero, c’era soltanto la croce di Cristo, da amare sino all'ultimo respiro. Sino all'estrema negazione di sé.

Abelardo la compì trovando la forza di chiedere perdono a san Bernardo, in nome di quella fede che li rendeva fratelli.

E il Santo di Clairvaux si cinse al petto il figlio che aveva così duramente punito ma che, forse, era sempre stato il figlio più caro.

Abelardo fu sepolto al Paracleto.

La leggenda narra che, quando Eloisa lo raggiunse nella medesima tomba, dopo più di vent'anni, la sua salma abbia levato le braccia per accogliere l’eterna amata.

Vita di Abelardo: cronologia essenziale

1079: anno della nascita;
1095-1100: inizio del suo soggiorno a Parigi;
1106-1108: ritorno in Bretagna per malattia;
1111: di nuovo in Bretagna per assistere la madre;
1114-1118: periodo d’insegnamento alla scuola di Notre Dame, a Parigi;
1116: esplode l’amore per Eloisa;
1117-1118: matrimonio segreto e nascita del figlio Pierre Astralabius;
1119: evirazione e conseguente ritiro a vita religiosa per i due sposi;1121: prima condanna del pensiero teologico di Abelardo, avvenuta al Concilio di Soissons;

1123-1126: istituzione dell’oratorio del Paracleto, a Troyes, e formazione della scuola.
1126-1136: Abelardo è abate nel monastero di Saint Gyldas de Rhuis;
1129: dono del convento del Paracleto a Eloisa;
1132-1134: scrive l’Historia calamitatum;
1140: seconda condanna al Concilio di Sens;
21 aprile 1142: morte di Abelardo.