La COP26 di Glasgow e il ruolo delle Compagnie Petrolifere (nei cambiamenti climatici)
Tra le proteste degli ambientalisti capitanati da Greta Thunberg e le promesse di molti capi di stato, il 12 novembre 2021 si è conclusa a Glasgow la Cop26, la conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici.
La COP26 di Glasgow
Una riunione che ha ricevuto la maggior partecipazione e la più alta attenzione mediatica di sempre, vista l'importanza della posta in gioco.
Alla fine, cosa è stato concordato?
Una coalizione di 197 paesi ha faticosamente raggiunto un accordo per mantenere l'aumento del riscaldamento globale sotto la soglia di 1,5°.
Un impegno che si dovrebbe concretizzare con la riduzione, entro il 2030, di almeno il 30% delle emissioni di metano, un gas serra tra i più pericolosi, e con la decisione di porre fine, entro la stessa data, alla deforestazione per mezzo di una convenzione sottoscritta dai paesi che detengono l'85% delle foreste.
Infine la GFANZ, Glasgow Financial Alliance for Net Zero, una coalizione di banche e fondi che raccoglie oltre 450 soggetti detentori di più del 40% dei capitali finanziari mondiali, si è impegnata ad azzerare, entro il 2050, le emissioni nette degli asset gestiti.
Si tratta di importanti accordi che si teme rimarranno promesse al pari degli impegni concordati nelle conferenze svoltesi negli anni passati, come la Cop21 di Parigi 2015.
Perché è così difficile concretizzare tali promesse?
La nostra economia è basata sull'utilizzo dei combustibili fossili: il loro consumo è considerato la principale causa del riscaldamento globale e, quindi, dei cambiamenti climatici.
Le compagnie petrolifere esercitano, pertanto, un ruolo fondamentale nell'indirizzare l'evoluzione sostenibile della società. La domanda è se i colossi dei combustibili fossili hanno davvero intenzione di agevolare il cambiamento e rinunciare ai loro immensi guadagni.
Exxon e Shell, due delle maggiori società petrolifere, sapevano da molti anni che i loro prodotti avrebbero provocato danni al sistema climatico nel lungo termine, ma solo a partire dal 2015 hanno iniziato a riconoscere ufficialmente la fondatezza delle affermazioni degli scienziati sulle variazioni del clima.
Al pari delle altre imprese del settore, hanno iniziato a pianificare un modello di business a minor intensità fossile mostrando un comportamento ambivalente, dato che continuavano a far parte di associazioni che diffondevano la disinformazione sulla scienza del clima, rallentando o impedendo di fatto qualsiasi cambiamento.
Questo nonostante che, a partire dagli anni Sessanta, i loro centri di ricerca avessero condotto rigorose analisi scientifiche sul legame tra i loro prodotti e i cambiamenti climatici, riconoscendo che l'utilizzo dei combustibili fossili avrebbe portato conseguenze catastrofiche sul clima del pianeta senza però divulgare i risultati, anzi, continuando a finanziare studi rivolti all'esterno con l'obiettivo di insinuare il dubbio sulla irrealizzabilità delle previsioni concernenti i cambiamenti climatici.
COP26 di Glasgow e il ruolo delle Compagnie Petrolifere
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Nel 1990, per la prima volta viene sancito da IPCC, il gruppo Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici fondato dalla Organizzazione Meteorologica Mondiale e dal programma delle Nazioni Unite per l'ambiente, che l'attività umana avesse contribuito in maniera rilevante all'aumento della concentrazione di gas serra nell'atmosfera.
La fondatezza del rapporto di IPCC venne ammesso dall'amministratore delegato della Shell solo nel gennaio 2020:
«tutti lo sapevamo ma tutti abbiamo fatto finta di niente», furono le sue parole pronunciate solo perché, nel 2018, la testata web olandese De Correspondent aveva pubblicato, nell'ambito di una inchiesta, molti documenti interni della Shell,
alcuni risalenti al 1981, in cui emergeva che la classe dirigente della compagnia era a conoscenza dell'impatto dei prodotti petroliferi sull'ambiente e sul clima.
La situazione era la stessa anche per le altre compagnie il cui obiettivo è sempre rimasto quello di trarre il maggior profitto economico dall'attività esercitata.
Oggi le società petrolifere hanno riconosciuto il nesso di causalità tra cambiamenti climatici e combustibili fossili ma cosa hanno fatto per cambiare la situazione di emergenza creatasi?
Hanno iniziato a promuovere campagne pubblicitarie in cui affermano di aver adottato strategie a favore della sostenibilità ambientale, ma si tratta di parole a cui non segue alcuna azione.
È la c.d. pratica del greenwashing con cui si dichiara la volontà di realizzare un processo lavorativo ecosostenibile attraverso espedienti solo apparentemente green che mirano a distogliere l'attenzione del pubblico dagli effetti negativi per l'ambiente causati dalle proprie attività o prodotti.
Purtroppo, le compagnie petrolifere continuano ad agire come nel passato:
l'Agenzia Internazionale dell'Energia ha infatti calcolato che, nel 2019, le loro spese in conto capitale alla voce combustibili fossili siano state il 99,2% di quelle totali, mentre solo lo 0,8% è andato alle energie rinnovabili e alle tecnologie a emissione negativa.
Addirittura, hanno pianificato di aumentare del 35% la produzione petrolifera nel periodo 2018 - 2030 dimostrando di non avere alcuna intenzione di modificare il proprio modello di business per utilizzare le nuove tecnologie a disposizione, come quelle da loro stesse brevettate da parecchi anni per la rimozione dell'anidride carbonica dai rifiuti per i veicoli a bassa emissione o per i pannelli solari di cui molte compagnie petrolifere come Exxon e Shell detengono parecchi brevetti.
Il governo americano, nel corso degli anni, ha distribuito consistenti finanziamenti alle società petrolifere che hanno effettuato ricerche nell'ambito della produzione di energia rinnovabile come quella prodotta dai pannelli solari di cui sono state leader fino agli anni Duemila.
Cosa hanno fatto le compagnie petrolifere di questi finanziamenti?
È accertato che, da diversi decenni, avessero la capacità e l'opportunità di decarbonizzare la loro attività, influenzando il comportamento dell'intera industria aprendo la strada a una transizione verso sistemi socio - economici più puliti.
La politica avrebbe potuto spingerli verso tale percorso ma, purtroppo, i gruppi petroliferi si sono alleati con i politici per mantenere lo status quo del modello economico esistente, fruendo spesso del sostegno di alcuni media che avvaloravano le tesi negazionistiche climatiche o creavano dubbi sulle posizioni teorizzate dagli scienziati sui cambiamenti del clima.
L'altra strategia da loro tenuta è stata quella di sostenere la "naturalizzazione del petrolio" ossia presentare il combustibile fossile come l'unico caposaldo nella nostra società senza il quale non può sopravvivere, così come il nostro benessere e stile di vita.
Attraverso una celata ma intensa attività di disinformazione e di lobbying, le compagnie petrolifere si sono presentate come meri fornitori di un prodotto necessario per soddisfare una domanda preesistente e rovesciando sugli individui la responsabilità delle scelte e dei conseguenti consumi che influirebbero sul clima, facendo dimenticare che questa responsabilità è, invece, strutturale e che i consumatori la subiscono.
Le scelte dei singoli sono influenzate dalla pubblicità che ha lo scopo di creare desideri effimeri e inutili ma necessari alle imprese per alimentare la produzione di beni per costruire i quali si utilizzano combustibili fossili e si surriscalda l'atmosfera del pianeta.
Packaging, COP26 e Compagnie Petrolifere
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Un altro legame nascosto è quello esistente tra le aziende che impiegano imballaggi monouso e l'industria petrolifera e del gas:
compagnie come Saudi Aramci, Total, Exxon e Shell stanno facendo enormi investimenti nel settore petrolchimico e nella produzione di plastica mentre
multinazionali come Coca-Cola, Nestlé, PepsiCo, Procter & Gamble e molte altre acquistano da loro gli imballaggi in plastica monouso.
La plastica del packaging, ricavata da petrolio e gas fossile, è tra i principali responsabili del riscaldamento globale ma la catena di fornitura della plastica è costruita in modo che risulti difficile risalire all'azienda che ha fabbricato l'imballaggio e a quella che ha fornito la materia prima.
Le compagnie petrolifere sostengono di non avere alcuna responsabilità nelle emissioni generate in quanto affermano di rispettare le normative esistenti.
La competenza della materia che trattano, in realtà, dovrebbe richiedere, da parte loro, una maggiore responsabilità nella gestione delle loro attività, nel riconoscimento dei danni finora causati e nella necessità di modificare il modello industriale per convertirlo in quello sostenibile di economia circolare.
COP26: emissioni zero
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Anche nel momento in cui si pianifica la volontà di diminuire o azzerare le emissioni entro una data, come stabilito a Glasgow, i pericoli sono in agguato:
emissioni zero non significa non emettere più gas serra ma compensare le emissioni prodotte con una serie di misure come la piantumazione di alberi, lo stoccaggio di CO2 o l'installazione di impianti rinnovabili.
Un report della confederazione di Oxfam, organizzazione no profit che combatte contro la fame nel mondo, spiega come riforestare su vasta scala per l'obiettivo carbon neutrality possa costituire un piano dannoso perché paesi e grandi industrie, per centrare l'obiettivo emissioni zero al 2050, dovrebbero utilizzare una superficie molto estesa da riforestare, pari a cinque volte l'estensione dell'India.
L'uso di vaste aree di terra per compensare le emissioni porterebbe alla fame piccoli agricoltori, indigeni e popolazioni già in sofferenza per la crisi climatica.
Molto meglio sarebbe optare per altre soluzioni come la graduale eliminazione dei combustibili fossili e la produzione di energia pulita attraverso rinnovabili.
Purtroppo, la concretizzazione degli impegni assunti dai paesi nelle conferenze di Glasgow 2021 o Parigi 2015 dipendono da poteri sui quali i singoli cittadini sembrano non avere voce.
Dopo la storica sentenza di maggio 2021 con cui un giudice olandese ha stabilito che la compagnia petrolifera anglolandese Shell dovrà ridurre le emissioni di CO2 del 45% entro il 2030, vincolando a quanto stabilito dagli accordi di Parigi non solo i paesi firmatari ma anche le multinazionali, alcune cose stanno cominciando a cambiare.
La sentenza olandese è portatrice di contenuti giuridici rivoluzionari perché,
per la prima volta, non viene chiesto a una compagnia di rimediare ai danni materiali prodotti ma impone comportamenti apportatori di effetti nel futuro.
Il 14 ottobre 2021 il tribunale amministrativo di Parigi ha obbligato la Francia ad adottare tutte le misure necessarie per riparare, entro il 31 dicembre 2022, al danno ecologico causato dal mancato rispetto degli impegni sul taglio della CO2 tra il 2015 e il 2018.
Anche questa è una rivoluzionaria sentenza emessa nell'ambito della causa intentata contro l'Eliseo da quattro ONG ambientaliste nel 2019. Il governo di un paese è stato riconosciuto colpevole per la sua "inerzia climatica" e, quindi, non solo responsabile del mancato impegno nella lotta al cambiamento climatico ma obbligato ad agire per porvi rimedio.
Si tratta di segnali importanti indicativi di una consapevolezza che sembra voler contrastare i poteri che si oppongono alla transizione ecologica.
Il tempo per cambiare, però, sta scadendo velocemente.
Bisogna sperare che le dichiarazioni concordate alla Cop26 di Glasgow non siano una maschera di facciata al pari del greenwashing per le compagnie petrolifere.
Di fronte all'urgenza di agire subito per contrastare i drammatici effetti della crisi climatica che la cronaca segnala ogni giorno, i giovani attivisti hanno lanciato la loro disperata voce di protesta fuori dall'edificio in cui si svolgeva la Cop26. Lo scetticismo di Greta Thumberg sintetizzato nel " bla, bla, bla" delle dichiarazioni dei politici è purtroppo giustificato e si è visto nello sconforto del Presidente della Cop26, Alok Sharma, durante la sessione di chiusura dei lavori.
A poche ore dalla firma della decisione finale è, infatti, intervenuta una modifica che ne ha ridimensionato la portata cambiando i termini di uno dei punti fondamentali del documento approvato: il termine phase-out (fuoriuscita) dal carbone è stato sostituito con phase-down (riduzione), generando un'inevitabile delusione.
Nonostante, per la prima volta nella storia delle Cop, si facesse riferimento diretto ai combustibili fossili, l'ambizione relativa alle decisioni sull'abbandono del carbone e dei sussidi alle fonti fossili è stata annacquata nelle fasi finali del negoziato, portando a una formulazione vaga e poco soddisfacente.
Occorre essere consapevoli che queste modifiche allontanano sempre di più dall'obiettivo vitale di mantenere il riscaldamento globale sotto la soglia di 1,5°.
Gli interessi delle compagnie petrolifere e dei loro alleati avranno influenzato le modifiche terminologiche dell'accordo di Glasgow?
Foto da UK in Holy See (Flickr), Wikipedia, COP26 su Flickr, Pixabay.