La granduchessa Anastasia è viva?

Era il 1920, quando una giovane donna si gettò in un canale di Berlino con la ferma intenzione di togliersi la vita.

L’intervento di un poliziotto sventò il piano della ragazza. Trasportata in un ospedale, le venne diagnosticato un disturbo psichico depressivo. La ragazza soffriva di vuoti di memoria e parlava a stento tedesco.

Presentava, inoltre, numerose cicatrici sul corpo e rifiutava di rispondere a qualsiasi domanda.

 

Dopo essersi fisicamente ripresa, venne condotta in un ricovero, nel quale un ‘infermiera russa dichiarò che la ragazza parlava russo con lei, era estremamente intelligente e aveva una notevole grazia nel portamento.

Qualcuno iniziò quindi a sospettare che quella giovane potesse in realtà essere un membro della famiglia Romanov.

Tesi che sembrò farsi solida nel momento in cui le venne mostrata una fotografia della famiglia reale, davanti alla quale la ragazza rimase angosciata.

Passò ancora un anno e mezzo, finché, nel 1921, la ragazza dichiarò di aver finalmente ricordato la sua identità. Si trattava di Sua Altezza Reale, la granduchessa Anastasia Nikolaevna Romanov.

Per valutare se ciò che la giovane stava dicendo fosse vero oppure no, furono interpellate alcune persone che, avendo avuto stretti contatti con la famiglia Romanov, potevano eventualmente riconoscerla.

Tre persone su quattro risposero affermativamente, quella sconosciuta era senz’altro una Romanov.

Certo di potersi servire di lei per arrampicarsi ancora più rapidamente sulla scala sociale, il barone von Kleist prese la donna sotto la sua protezione, dandole il nome di Anna Anderson e portandola a vivere, nel maggio del 1922, con la sua famiglia.

Quello stesso mese, il barone decise di dare un ricevimento in onore della presunta granduchessa, per poter così mostrare il suo trofeo a tutti i membri dell’élite berlinese.

La ragazza, però, ancora emotivamente e psicologicamente provata, crollò durante i festeggiamenti, preda di un attacco nervoso.

Le sue condizioni erano tali che si decise di somministrarle della morfina per calmarla, ma, sotto effetto del medicinale, la donna iniziò a raccontare ciò che accadde la notte fra il 16 e il 17 luglio del 1918 a Ekaterinburg.

Narrò di aver preso un violento colpo in testa, in seguito al quale aveva perso i sensi. Quando si era risvegliata, si era trovata su un carro agricolo.

A salvarla era stata una famiglia di nome Tsaichovskii. Aleksander Tsaichovskii apparteneva alle guardie rosse di Ekaterinburg e le aveva raccontato di averla trovata ancora viva nel camion che trasportava i cadaveri, conducendola di nascosto alla sua fattoria, quando il camion era rimasto impantanato.

Insieme alla madre e ai fratelli l’aveva poi condotta a Bucarest, dove vissero rivendendo i gioielli che Anastasia teneva cuciti sotto il vestito.

Anastasia dichiarò di essere stata violentata da Aleksander, di aver avuto un bambino da lui nel 1919 e di essere stata costretta a sposare il suo stupratore, il quale, però, morì poco dopo, ucciso in strada mentre andava a vendere altri gioielli.

Il bambino era quindi finito in orfanotrofio e Anastasia era partita per Berlino per incontrare la zia Irene, principessa di Prussia.

Trovandosi sola e spaventata in una città sconosciuta, aveva deciso di porre fine alla sua vita. Per questo si era gettata da un ponte nelle gelide acque di un canale.

Qualche anno dopo, parte della sua storia fu confermata da alcuni testimoni, che dichiararono di aver visto la famiglia Tsaichovskii trasportare una ragazza su un carro, dicendo che era la figlia minore dello zar, mentre altri fornirono un identikit che corrispondeva a Aleksander Tsaichovskii, descrivendo un uomo che si era recato a vendere una preziosissima collana di perle russa in una gioielleria.

In casa del barone von Kleist Anastasia, o Anna, come veniva allora chiamata, si rifiutava di parlare russo perché ciò le portava alla mente la strage di villa Ipatiev.

Infine, nel gennaio 1924, accettò l’invito dell’ispettore di polizia Grünberg che le offrì ospitalità nella sua casa di campagna.

L’ispettore organizzò l’incontro per il quale Anna si era recata a Berlino. Invitò la principessa di Prussia, senza però rivelarne immediatamente l’identità a Anna, per vedere se quest’ultima avrebbe riconosciuto la zia.

L’incontro si rivelò un fallimento: la principessa Irene non era convinta della somiglianza di Anna con la nipote e Anna ebbe una crisi isterica, dichiarandosi offesa per il fatto che la zia si fosse presentata come un’estranea per ingannarla. Tuttavia, questo non fu un semplice episodio isolato.

Negli anni a seguire, Anna venne, in parte, riconosciuta solo dalla granduchessa Olga, figlia dell’Imperatrice madre e dalla cugina Xenia di Russia, che ritirò poi la dichiarazione per questioni legate all’eredità. 

Con chiunque si rifiutasse di riconoscerla o aiutarla, Anna si dimostrava poco collaborativa e nel 1938, spinta dagli avvocati, portò il suo caso in tribunale.

La sua richiesta fu il riconoscimento della sua identità quale unica e autentica Anastasia e l’entrata in possesso di qualunque proprietà i Romanov avessero in Europa. Questa si trasformò nella più lunga causa legale tedesca del secolo scorso.

Da entrambe le parti si presentarono testimoni di ogni sorta, ma contro Anna vi erano due fattori importanti: prima di tutto, il non essere stata riconosciuta da gran parte dei membri rimanenti della famiglia Romanov; secondariamente, la testimonianza di una donna di nome Doris Wingender che identificò Anna come Franziska Schanzkowska, un’operaia polacca che aveva vissuto con lei fino al 1920.

La causa venne interrotta con lo scoppio della seconda guerra mondiale, in seguito alla quale in tribunale vennero portati, oltre ai testimoni, anche diversi esperti, tra i quali uno in particolare avanzò l’ipotesi che Anna fosse una gemella segreta di Anastasia.

La storia di Anna aveva fatto il giro del mondo, tanto da permettere la stesura di saggi e romanzi e l’uscita di un film, nel 1956, con Ingrid Bergman e Yul Brynner.

Nel 1968, Anna, a causa delle sue condizioni di salute si trasferì in America, dove sposò John E. Manahan e, dopo due anni, al termine del processo, vide dissolte le sue speranze di essere riconosciuta come discendente dei Romanov. 

La Corte Suprema della Germania Occidentale respinse la sua istanza, ma non dichiarò che Anna non era Anastasia, semplicemente che non era riuscita a dimostrare di esserlo.

Quattordici anni dopo, nel 1984, Anna morì, senza che la verità sulla sua identità fosse ancora venuta a galla.

Qualche anno prima, nel 1976, era stata avanzata un’ipotesi interessante sulla possibile sorte della famiglia Romanov.

Ciò che per decenni si è raccontato, veritiero o meno che fosse, infatti, non rappresentava altro che una teoria: le prove che la famiglia imperiale fosse davvero stata sterminata erano totalmente inesistenti.

Nel 1919, Nicholas Sokolov, investigatore al servizio del governo “bianco” della Siberia, era giunto alla conclusione che l’intera famiglia Romanov fosse stata massacrata e i corpi eliminati, ma la sua indagine non aveva riscontrato particolare successo.

Poco meno di sessant’anni dopo, quindi, due giornalisti della BBC, Summers e Mangold, riesaminarono il dossier di Sokolov, dimostrando che lo scopo principale dell’inchiesta iniziale aveva avuto una natura politica.

Ciò che si era desiderato maggiormente, all’epoca, non era stato fare luce sui fatti, ma, piuttosto, diffamare i bolscevichi attribuendo loro il massacro della famiglia imperiale. 

Per accelerare le indagini, Sokolov non si era preoccupato di approfondire la questione della sparizione dei corpi: aveva semplicemente raccontato che erano stati bruciati e distrutti con l’acido, mentre i resti erano andati perduti nel pozzo della miniera.

Diversi patologi, però, si trovarono concordi nello stabilire che non fosse possibile far scomparire completamente dei corpi in questa maniera, ma nel pozzo non erano state trovate ossa umane.

Summers e Mangold, quindi, avanzarono un ipotesi che, in gran parte, rispecchiava le speranze di molti che desideravano un erede al trono appartenente alla famiglia Romanov.

Secondo i due giornalisti, il massacro di Ekaterinburg era stato una montatura per nascondere una sorta di alleanza tra i soviet e la Germania imperiale: secondo loro, i tedeschi volevano salvare Aleksandra, cugina del kaiser Guglielmo, mentre Lenin voleva servirsi dei Romanov per ottenere concessioni dalla Germania.

Tuttavia, ad un certo punto, le contrattazioni tra le due parti dovevano essersi bloccate, rendendo i Romanov un peso inutile. A quel punto, la famiglia imperiale avrebbe anche potuto essere riuscita a scappare e nascondersi.

L’unico modo per porre fine a tutte le congetture era trovare i cadaveri.

Nel 1976, stesso anno della pubblicazione del libro inchiesta prodotto da Summers e Mangold, lo scrittore e regista Geli Ryabov stava lavorando a un film sulla milizia dei soviet. Senza una precisa motivazione, si fece immediatamente condurre a casa Ipatiev, inizialmente conservata come un museo e poi chiusa al pubblico per utilizzarne le stanze come uffici.

Ryabov, comunque, decise che era suo dovere scoprire la verità e ottenne il permesso non solo di visitare la dimora, ma anche di passarci un notte intera per esplorarla.

La sua ricerca durò tre anni e il primo vero risultato arrivò solo nel 1978, quando Ryabov riuscì a rintracciare il figlio più anziani di Jurovskij, l’uomo che a Ekaterinburg aveva in custodia i Romanov.

Ryabov riuscì così ad avere il rapporto originale scritto da Jurovskij che, oltre a rivelare la strage, descriveva anche il punto esatto in cui i corpi sarebbero stati sepolti.

Nel maggio 1979, finalmente Ryabov e i suoi collaboratori trovarono ciò che cercavano. Perlustrando e scavando nella zona in cui, secondo il rapporto, si trovavano i corpi, il piccolo gruppo di volontari trovò per primo l’osso di un bacino e, in seguito, arrivarono a toccare almeno otto o nove scheletri e riesumarono alcuni teschi.

Tuttavia, Ryabov decise di seppellire nuovamente i resti dei Romanov, promettendo che avrebbe rivelato la loro ubicazione e le sue scoperte solo se fosse stata garantita una sepoltura cristiana alla famiglia imperiale.

Ben presto, quindi, lo scopo del regista russo si rivelò essere quello di attaccare il sistema dei soviet e in particolare Lenin, il cui coinvolgimento nel massacro dei Romanov era sempre stato negato dalle autorità sovietiche.

Ryabov decise di rivelare tutto solo nel 1987 e, quattro anni dopo, si decise di riesumare le ossa per condurre su di esse una serie di verifiche scientifiche. I resti recuperati portarono gli esperti a ricomporre, nell’arco di tre mesi, nove corpi, cinque donne e quattro uomini.

Si riscontrò, inoltre che cinque scheletri appartenevano a membri della stessa famiglia. Ma, questo significava che all’appello mancavano due corpi, quello di Aleksej e di una delle ragazze, molto probabilmente Anastasia, che all’epoca dei fatti era adolescente e, quindi, con uno scheletro ancora in fase di crescita, al contrario delle ossa rinvenute, appartenenti di certo a individui maturi.

Una spiegazione di questo mistero risiede nello stesso rapporto di Jurovskij. Nel goffo tentativo di nascondere i cadaveri, infatti, i carnefici decisero di cremare due corpi, molto probabilmente quello dei due figli minori dello zar.

Nonostante le coincidenze e le corrispondenze, rimase, però, il dubbio che quelli trovati non fossero i corpi dei Romanov.

Si decise quindi di procedere con l’esame del DNA, sottoponendo alcuni altri membri della famiglia Romanov, ormai sparsi per il mondo, ad un prelievo che consentisse al team di esperti di completare le indagini.

In tal modo si riuscì a identificare Nicola II, la zarina Aleksandra e si scoprì che cinque corpi erano effettivamente collegati e che tre di questi appartenevano a sorelle.

Esattamente ottanta anni dopo la loro uccisione, quindi, il 17 luglio 1998, l’ultimo zar di Russia e la sua famiglia vennero seppelliti a San Pietroburgo, con una cerimonia alla quale presenziò anche Boris Eltsin, allora presidente della Repubblica russa, che invitò i russi a chiudere quel secolo sanguinoso con il pentimento.

Mentre gli studi sulle ossa dei Romanov erano ancora in corso, negli Stati Uniti alcuni amici dell’ormai defunta Anna Anderson, recuperarono dei frammenti di tessuto appartenuti alla donna e conservati in un laboratorio medico in seguito a una operazione avvenuta nel 1979, per sottoporli ad un esame del DNA, confrontandoli con i resti dei Romanov. 

L’esperto incaricato del confronto, però, decise di verificare la vera identità di Anna Anderson confrontando il suo DNA anche con quello di Carl Maucher, nipote di Franziska Schanzkowska, l’operaia polacca che alcuni sostenevano essere Anna Anderson. Nel 1995, i risultati confermarono proprio quest’ultima teoria. Anna Anderson non era una Romanov, di conseguenza, non poteva essere Anastasia, come lei sosteneva.

Gli amici della Anderson si rifiutarono di credere agli esami effettuati e li rifiutarono. Diversi, nel mondo, ebbero la stessa reazione, preferendo credere alla romantica storia di una donna sfuggita miracolosamente ad un massacro e salvata dal caso da un matrimonio contratto con uno dei suoi aguzzini.

Ci fu chi arrivò anche a avanzare ipotesi riguardanti una cospirazione per nascondere la verità su uno dei casi più agghiaccianti della storia del secolo scorso, pur di mantenere vivo uno spiraglio di speranza.