Un viaggio d'amore da Roma al Galles Il sogno dell’imperatore
“Il sogno del principe Maxen” è un racconto raro per forza descrittiva e per l’eccellenza della composizione letteraria, in cui l’incalzare drammatico squarcia come folgore la misura del ritmo narrativo.
Esso risale alla fine del XII secolo e appartiene al cosiddetto ciclo del Mabinogion.
Gli elementi storici lo differenziano da altri soggetti, maggiormente pervasi dal mito.
La figura di Maxen ravvisa quella dello spagnolo Magnus Maximum che, eletto imperatore romano nel 383 per acclamazione dell’esercito, governò sino al 388, quando fu assassinato. Ma ciò avviene solo per una coincidenza di date e di situazioni, dal momento che Maximum combatté le guerre britanniche al seguito di Teodosio e che occupò la Gallia.
In realtà, nel racconto, il protagonista non si comporta come un patrizio latino. Ha piuttosto gli atteggiamenti, il carattere, le inclinazioni d’un eroico e ardente sovrano celtico.
Abbiamo rivisitato per i lettori l’episodio iniziale del “Maxen”, quale fiaba adatta a tutte le età, da leggersi davanti al camino acceso, nelle prossime festività natalizie.
Regnava in quel tempo sull'Impero di Roma il principe Maxen, uomo fiero, assennato e di straordinaria avvenenza. Egli amava la caccia e la praticava con passione.
Capitò che un mattino si trovasse nella valle del Tevere. Trentadue re minori lo accompagnavano e Maxen, sin dal levarsi del sole, aveva cacciato alacremente soprattutto per dimostrar loro la sua supremazia. Ma quando venne mezzogiorno, le forze cominciarono ad abbandonarlo ed egli si sentì stanco e assonnato. Allora, mentre raggi caldi e dorati arroventavano la terra, egli cedette e si sdraiò al suolo.
I palafrenieri piantarono tra le zolle erbose le loro lance, disponendole a guisa di cerchio intorno al loro signore e, su ognuna di esse, posero gli scudi affinché facessero ombra al riposo dell’imperatore. Ci fu chi prese lo scudo d’oro di Maxen e glielo fece scivolare sotto la testa come se fosse stato un guanciale.
Il lungo sonno recò al principe una visione nitida, chiara come la luce.
Egli vide la sorgente del fiume presso cui dormiva e l’improvvisa comparsa di montagne sempre più alte che lo condussero a una vetta così elevata da toccare la volta celeste. Oltre la catena dei monti, si stendevano pianure verdeggianti. Fiumi impetuosi correvano verso il mare e Maxen li costeggiava tutti, guadagnando di ognuno la foce.
Sul mare sorgeva una grande città armata come una fortezza, le cui torri si specchiavano sull'acqua in svariati colori. Vicino alla fortezza c’era una flotta così gagliarda che mai l’imperatore ne aveva scorta una uguale.
Tra le navi, una era la più bella fra tutte ed era fregiata d’oro e d’argento. Un ponte di costole di balena la collegava al porto.
Maxen salì sulla nave.
Le vele si sciolsero di colpo e il vento lo fece salpare.
Approdò a un’isola vasta e meravigliosa e la percorse da parte a parte, camminando su sentieri tracciati tra rocce, dirupi e ruscelli. Fu nuovamente il mare a fermare la sua avanzata.
Di là dalle onde, una seconda isola emergeva dall'acqua e altri ruscelli, altre montagne, altre foreste lo attendevano. Un largo fiume scendeva dalle pendici d’un monte. Egli lo seguì sino alla foce. Uno splendido forte la presidiava. Un’enorme porta spezzava la corsa delle mura ed era spalancata, quasi aspettasse un ospite di riguardo.
L’imperatore entrò.
Raggiunse un salone rivestito d’oro massiccio: dorati erano i soffitti, dorati i pavimenti, dorate le pareti, che erano tempestate di gemme fulgide. C’erano panche d’oro accostate a tavoli d’argento.
Di fronte a lui, sedeva un vecchio e i braccioli del suo scranno erano d’avorio scolpito, sormontati da falchi d’oro rosso.
Si trattava d’un uomo maestoso: una collana gli cadeva sul petto possente e un cerchio d’oro gli cingeva la fronte e i capelli. Con una lima di ferro, il vecchio rifiniva i pezzi d’una scacchiera d’oro che aveva innanzi a sé.
A scacchi giocavano poco distante due giovinetti che indossavano vesti di broccato nero. Avevano le chiome corvine, tra le quali brillava una fascia d’oro rosso e di pietre preziose uguale a quella che portava il vecchio.
Presso una colonna, assisa sopra una sedia d’oro, una fanciulla vestiva una tunica dorata.
Maxen faticava a guardarla perché il suo viso sprigionava il medesimo bagliore del sole. Eppure, una forza misteriosa lo costringeva a levare lo sguardo, a lasciarsi abbacinare da quel tripudio di luce… Oh, com'era bella!
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Finalmente, la fanciulla s’avvide di lui. Si alzò rapida e gli mosse incontro, cingendogli il collo con le braccia bianche, morbide e odorose.
Lo invitò a sederle vicino e Maxen, inebriato dalla gioia e dall'incanto, piegò dolcemente la guancia sulla tempia di lei. Ma irruppero i cani della muta imperiale, sbandarono contro le lance conficcate nel terreno, fecero vacillare e cadere gli scudi e, al nitrire spaventato dei cavalli, Maxen si destò di soprassalto.
Da quel giorno, egli non ebbe più pace. Concentrato com'era nell'immagine di colei che gli aveva rubato il cuore, perse l’appetito, l’interesse per le emozioni della vita e prese in uggia persino il vino e l’idromele.
Gli affari di Stato lo lasciavano indifferente né lo coglieva la brama di nuove conquiste. Vegetava in attesa delle tenebre ristoratrici perché solo nel sonno gli sarebbe ancora apparsa la sua amata.
Alla fine, furono i dignitari di Corte a consigliarlo. Gli anziani gli suggerirono di dedicare tre anni della sua vita alla ricerca dell’ignota fanciulla, inviando messi in tutto il mondo conosciuto affinché gli riferissero i frutti della loro esplorazione.
Maxen si rianimò prontamente, sicuro che la buona notizia che attendeva gli sarebbe presto giunta.
Invece trascorse il primo anno e nulla accadde.
Un nero sconforto attanagliò di nuovo l’animo dell’imperatore. Fu riunito in fretta il consiglio dei saggi. Fu stabilito che l’incarico fosse affidato a tredici messi tra i più fidati e che essi, per meglio orientarsi, partissero dalla riva del Tevere su cui si era addormentato Maxen.
I messi si misero in cammino verso occidente e, man mano che procedevano, s’accorsero che il paesaggio era fatto di montagne e di pianure, di fiumi, d’isole e di mari, proprio come lo aveva visto in sogno il loro imperatore.
S’imbarcarono sulla stessa nave d’oro e d’argento dell’immagine onirica e raggiunsero l’isola di Britannia.
L’attraversarono sino alla terra di Eryri, che era solcata da tanti corsi d’acqua. Avanzarono ancora e avvistarono l'Arvon e l’isola di Anglesey. Da ultimo, arrivarono ad Aber Sein e ai loro occhi apparve il forte che sorgeva sulla foce del fiume.
Vi penetrarono perché, come nella visione, la porta era aperta. Un’identica sala d’oro li accolse. Là c’erano un vecchio re, che scolpiva scacchi d’oro, due giovinetti che, seduti sopra una panca d’oro, ingannavano il tempo giocando a scacchi e una principessa di prodigiosa beltà.
I messi la ossequiarono con deferenza: “Salute a te, imperatrice di Roma!”
La fanciulla non comprese le loro parole e le scambiò per un motteggio. Ma quando gli stranieri le narrarono la visione del loro signore, ella arrossì e tacque. Pur fidandosi di quanto le era stato rivelato, non volle seguirli.
“Se l’imperatore davvero mi ama e non ha più vita né riposo a causa mia,” disse infine, “allora si metta in viaggio e venga lui stesso a chiedere la mia mano, qui, nella mia terra.”
Dopo aveva cavalcato senza tregua, notte e giorno, i messi tornarono a Roma. Si precipitarono da Maxen e gli riferirono l’invito della principessa.
L’imperatore li scelse come guide e partì senz'indugio.
Strada facendo, conquistò la Britannia e, giunto che fu nell'Arvon, riconobbe subito il paese che aveva sognato.
Si presentò a Eudav figlio di Caradawc, sovrano del forte di Aber Sein che, nei momenti di riposo, amava intagliare scacchi d’oro.
Presso di lui vi erano i figli Adaon e Kynan, che si trastullavano giocando a scacchi.
Lei, la fanciulla ammirata nel sogno, se ne stava seduta sopra uno scranno dai braccioli d’oro ed era la principessa Elaine, figlia di Eudav.
“Salute a te, imperatrice di Roma!” la riverì Maxen, mentre con umile sguardo d’amore le accarezzava il volto.
Elaine fu conquisa dalla sua gentilezza e dal suo bell'aspetto e, pregatolo affinché si accomodasse accanto a lei, piegò la fronte sulla sua spalla di valoroso.
Egli la strinse tra le braccia, la chiese in moglie e le nozze furono celebrate prima che cadesse la notte.
La mattina dopo, Maxen pensò di fare un dono alla sua sposa. Le promise che tre roccaforti sarebbero state costruite in suo onore, dove lei avesse voluto.
Elaine decise che la prima sarebbe sorta sul monte più alto dell'Arvon e che le restanti due sarebbero state edificate a Caer Vyrddin e a Caer Llion.
Volle che ci fossero strade che permettessero di viaggiare dall'una all'altra e che riunissero la gente di Britannia.
Per questo l’imperatrice che fu moglie del principe Maxen da sempre è conosciuta come Elaine Guida degli Eserciti, perché radunò sotto lo scettro la folla dei suoi sudditi.
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