L'Arancione il colore tossico che incantava i Maestri della pittura
Se rimuovessimo l'arancione dai dipinti e dalle tele, l'universo che riflette la storia dell'arte collasserebbe.
Togliamo l'arancione e tutto svanirebbe, dalla lontana gloria eterna delle tombe egiziane alla tormentata barba dell’autoritratto di Vincent van Gogh.
Non c'è blu senza il giallo e senza l'arancione. (Vincent Van Gogh)
Tra il rosso furioso e l'implacabile giallo attorno a questo pigmento oscilla l'opera d'arte fra stati opposti dell'essere: fra il calore di questo mondo e il freddo dell'aldilà.
Al di fuori della struttura della storia dell'arte, l'arancione ha dimostrato di essere un simbolo insolitamente flessibile ed è fiorito in un ampio spettro di forme e significati culturali.
Nell'influente casa reale europea dei d'Orange (arancione in inglese) il suo discendente di spicco Guglielmo III, meglio conosciuto come Guglielmo d'Orange, abbracciò presto la coincidenza linguistica per farne il colore simbolo del casato.
Era la loro bandiera: arancione, bianca e blu dalla quale sarebbe poi nata quella attuale dell'Olanda.
Da lì, l'arancione nel mondo occidentale ha visto crescere il suo utilizzo: dai camion dei pompieri in Svizzera alle tenute dei carcerati negli Stati Uniti passando per i coni del traffico.
Ma è stato nel regno dell'arte e dell'estetica dove il colore ha portato i suoi frutti più noti.
Dall'antichità alla fine del XIX secolo, un minerale vulcanico trovato nelle fumarole sulfuree era la principale fonte per la produzione di pigmento arancione.
L'orpimento (solfuro di arsenico) è un minerale altamente tossico, come è noto, è ricco di arsenico e “matura” in un varia tonalità di colori che vanno da un giallo miele ad un arancio intenso quando viene posto sul fuoco.
Convinti che il bagliore luminoso dell'oropimento (aurum=oro e pigmentum=pigmento) potesse essere un ingrediente chiave nella creazione della pietra filosofale, per secoli gli alchimisti vi si esposero senza riserve al contatto con questa sostanza tossica.
E così anche gli artisti per i quali entrare nel mistero nascosto dell'arancione era flirtare, allo stesso tempo, con la morte e l'immortalità.
Consapevolmente o no, con quell'aura ambigua l'arancione divenne irrefrenabile nell'arte.
Prendiamo ad esempio il pittore francese rococò Jean-Honoré Fragonard e il suo ritratto dal titolo L'ispirazione (anche conosciuto come Autoritratto, Uomo in atto di scrivere oppure Il poeta) che risale al 1769.
L’arancione che esplode dalla maglia sembra identificarsi interamente con la figura allegorica del poeta la cui immaginazione ha iniziato a prendere fuoco.
Qualcosa proviene dall'interno dell’anima del poeta, è qualcosa che può assicurargli la fama eterna del bardo oppure bruciargli la sua intera umanità.
Avere dipinto con un colore diverso avrebbe tolto tutta la forza e l’espressività all’opera.
Così l’arancione secolo dopo secolo determina non solo “la temperatura” di un'opera d'arte, ma anche quel precario confine tra un universo che possiamo vedere e gli spazi misteriosi e sconosciuti che possiamo tentare ad immaginare.
Nel cielo nel dipinto L'urlo di Edvard Munch potrebbe echeggiare cosi intensamente quell'urlo senza quel dialogo intenso fra il rosso e l’arancione?
E in quale altro modo i ballerini del dipinto La Danza (La Danse) di Henri Matisse, potevano essere rappresentati ruotando apocalittici sul limite dell'oblio se non giocando fra il vermiglione e il nostro colore?
In questo dipinto del 1910 a prima vista potrebbe sembrare un'apoteosi del fascino del ritmo ma l'inquietante sfumatura dei cinque corpi nudi lascia intuire che in gioco c’è qualcosa di più complesso e pericoloso.
Anche nel Flaming June (Giugno fiammeggiante, 1895), di Frederic Lord Leighton, il colore arancione esercita il suo fascino conferendo alla donna quell’effetto vagamente erotico che faranno considerare il quadro uno dei capolavori dell’epoca vittoriana e uno dei più riprodotti.
Foto da Wikipedia.org
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