La determinazione del tempo e il piano di liberazione umano

"Ripensando ancora una volta nel XIX secolo il pensiero dell'eterno ritorno, Nietzsche si presenta come colui nel quale si adempie ora il mitico decreto del fato. Infatti l'essenza dell'accadere mitico è il riproporsi." (Walter Benjamin, Tesi sul concetto di storia, Einaudi, Torino, 2006, vol. VIII, p.499)

 

 

I greci pensavano che in un tempo mitico fossero accadute le storie primordiali, questo tempo mitico è il tempo in cui sono avvenute tutte le vicende dei miti, dopo tutti gli eventi primordiali si sarebbe ripetuti all'infinito.

In origine il tempo è una grande ruota, come le macchine con gli ingranaggi; l'orologio è costituito di questi e lo stesso deve essere per il tempo.

I greci avevano un grande pensiero:

tutto muta; questo pensiero lo aveva esposto Eraclito, l'uomo aristocratico di Efeso.

Tuttavia Eraclito diceva che il  concatenamento delle cose è principio e fine del cerchio. Per i greci il cerchio era la perfezione, l'infinito, l'assoluto. Il destino stesso.

E si sa che il destino è una freccia che colpisce necessariamente: non si sfugge. Un cerchio può essere percorso in due modi: si può andare indietro verso il passato o muoversi in avanti verso il futuro, ma il tragitto è sempre lo stesso, gli eventi sono comunque identici, ciò che è stato sarà e ciò che sarà è già stato.

Dobbiamo immaginarci il grande Eraclito che gioca a dadi con gli dei: tutto sembra il risultato di quei lanci.

Il mondo è il firmamento crollato sul quale erano scritte tutte le storie eterne come stelle brillanti; il tempo mitico, lo scritto eterno e le sue storie eterne crollano generando un nuovo mondo, un eterno minore, un eterno ritorno.

Il merito di Nietzsche è quello di aver pensato una versione atea di questa forma di tempo, di aver pensato il caso nel destino.

Mentre prima il tempo circolare poteva confermare l'esistenza degli dei o anche l'esistenza di un destino ancora al di sopra di essi, con Nietzsche il tempo è la rappresentazione della morte di Dio, tutto ciò che è eterno torna nel divenire, solo questo mondo rimane come mondo reale.

L'eterno ritorno è solo una questione di probabilità limitate, di un sacchetto con 1000 bilie che ogni tanto vengono estratte e ogni tanto tornano nel sacchetto. Ma l'eterno ritorno è una questione di mito; anche l'inconscio dice la psicoanalisi.

È un dato di fatto che ciò che noi vediamo ora all'esterno deve valere nei suoi presupposti anche per il nostro interno.

Il mito è la nostra vita:

come noi ci comportiamo, continuiamo a riscrivere le stesse storie eterne, storie che non sono necessariamente quelle dei greci o dei popoli nordici, ma sono storie eterne come quelle: sono le nostre ripetizioni.

Descriviamo ripetizioni di azioni tutti i giorni perché dentro di noi queste ripetizioni di fatto esistono già. È diabolico l'enneagramma perché azzecca sempre sul comportamento dei soggetti, usa nove codici di carattere con tutte le loro peculiarità e riesce con queste nove reti ad impigliare l'intera umanità.

Ogni persona ha la sua storia, il suo carattere lo porta a comportarsi in un certo modo e questo costituisce le ripetizioni.

C'è chi vuole essere perfetto in tutto e si arrabbia sempre se lo criticano perché vuole avere sempre ragione, di fatto questa persona si costruisce sempre le stesse situazioni e le vive continuamente, così la sua vita ripete le sue vicende di rabbia, rapporti rotti e così via.

C'è il timido solitario che bloccato nel suo carattere non riesce a trovare una via d'uscita e in mezzo ad una folla si trova sempre solo come prima; di fronte allo spettrale vuoto interiore della solitudine questo soggetto medita in quei momenti sull'inquietante possibilità del suicidio.

Un terzo non si fida di nessuno e perciò impedisce a sé di fare molte esperienze nella sua vita,

qualcun altro vorrebbe della pace nei rapporti che ha attorno, ma fugge sempre quando deve litigare con qualcuno.

Non si tratta a questo punto di nove caratteri e basta, sono le nostre storie eterne o sono comunque degli esempi di questo. Se non cambiamo di carattere tutto questo deve necessariamente ripetersi, creiamo certe situazioni, ci identifichiamo in personaggi e perciò di fatto siamo quello che facciamo.

Il nostro futuro è il nostro passato e se conosciamo bene questo potremmo quasi fare delle profezie.

 

Un certo uomo passa la sua vita davanti ad un orologio colto dall'enigma del tempo, vede una lancetta che si sposta in avanti: un movimento ritmico risultato di un meccanismo interno; lui vede l'orologio, ma vorrebbe capire il meccanismo.

La lancetta sembra lanciarsi verso il futuro. Anche quando tutto sembra fermo, una lancetta dei secondi fa sempre il suo corso: insegna che il divenire non smette mai e conquista la sua eternità.

Non è possibile fermare le lancette se non rompendo l'orologio, ma questo atto rappresenterebbe solo una distruzione del simbolo, non di ciò che indica. Allora l'uomo comincia a guardare l'orologio con le sue lancette, immagina come se potesse spostare le lancette all'indietro e si rende conto che non cambierebbe un gran che, cambierebbe la direzione del tempo, ma non il suo tragitto.

Il tempo è una cosa sola, non è una successione di eventi;

questa successione è solo il risultato di qualche operazione della coscienza che opera con la memoria.

Se il tempo è una cosa sola, passato e futuro si dicono simultaneamente, come un'unità, tutto in continuità. Quest'uomo è lì davanti perché si sente truffato, ha la sensazione che qualcosa non torni, tutti i secondi tornano, i minuti e le ore, ma qualcosa non torna nel tempo,

cosa non torna nel tempo?

Lui è lì, guarda l'orologio, ci sono dei muri verdi attorno a lui, è seduto su una scalinata. Tutto questo deve tornare, ma qualcosa non torna, lui è, è lì in quel momento che fissa l'orologio, semplicemente è, che se il tempo destinasse ogni cosa a perire non potrebbe essere vero.

L'uomo comincia a piangere, ha capito!

Quello che non torna nel tempo è il presente, il semplice fatto di esistere, il poter dire io sono.

La gioia gli fa lanciare il coltello che ferma l'orologio e grida: questo istante sarà qui per sempre d'ora in poi in avvenire perché tutto ciò che si muove avanti si muove indietro, ma in vero è sempre nella stessa posizione, come io sono qui sulla scalinata.

Ora ogni mossa d'ora in poi non potrà che essere questa estensione del presente. Un solo presente per tutti quelli del tempo.

 

Adesso è chiaro: il presente è la via d'uscita, l'attimo di libertà vero e proprio. Il presente è contrario al tempo, questo accade perché per essenza è immobile, è sempre nuovo e nello stesso tempo è il cominciamento assoluto così come la fine di ogni cosa.

Di fatto ogni cosa scorre e tutto muta, ma sarebbe davvero improprio pensare che vi sia un tempo unico che consista in una continua successione di presenti, questo fatto porterebbe all'idea di un tempo che non scorre, come lo spazio impercorribile dalla famosa tartaruga di Zenone.

In apparenza potremmo dirci semplicemente che non è così, che il tempo non è illusione, che dopo tutto le persone muoiono e tutto deve fare il suo corso.

Questo è vero perché ogni cosa è temporale: noi siamo degli esseri finiti, abbiamo quasi i giorni contati, non perché siamo nel tempo, ma perché noi siamo essenzialmente temporali.

Di fatto ogni cosa è del tutto inseparabile dalle sue parti temporali:

il tempo è assieme allo spazio un'altra dimensione delle cose.

Il movimento è primo rispetto allo spazio e al tempo.

Una persona passeggia per la strada ed è del tutto inseparabile dal suo passeggiare, anche se improvvisamente potrebbe fermarsi, un colpo di vento colpisce i suoi capelli e ricominciano nuovi movimenti; gli eventi del tempo diventano parti temporali degli enti oltre alle qualità dello spazio.

Tuttavia se il tempo si dovesse frammentare in questo modo, avendo solo cose che divengono perché durano, allora il tempo universale comincia un po' alla volta a scomparire.

 

Credo sia stata per prima la fisica, forse dopo la filosofia ad aver frammentato il tempo ed essersi accorta che non poteva esistere un solo tempo, ma dovevano esisterne molti.

Se pensiamo che ci sono molti eventi che avvengono allo stesso tempo, dobbiamo ammettere che vi è un presente in cui tutte questi avvengono. Il presente è proprio ciò che non torna nel tempo, esso non c'è di fatto ed è la sua contraddizione.

Per questo non possono avvenire nel tempo eventi allo stesso tempo, per questo vi devono essere più tempi, tanti tempi, ogni cosa ha la sua temporalità, non come percezione soggettiva di un tempo unico, ma come temporalità propria di esistenza.

Così accade che l'uomo passa vite a cercare il presente che non trova, ma questo presente deve esistere in qualche modo, esso deve esserci.

Quali sono le prove che esiste il presente?

Di fatto ogni volta che noi uomini collaboriamo per qualcosa di grosso cerchiamo sempre di costituire una sfera comune di azione, lo facciamo nello spazio e cerchiamo di farlo anche nel tempo;

le nostre scelte richiamano un presente che non potrebbe esserci, perché tutto sarebbe ancora da scegliere e tutto già scelto, ma quel momento prolungato che si dilata in cui noi meditiamo la scelta sembra sospendere la nostra vita;

se ci attenessimo solo al tempo, la conclusione di esso sarebbe questa estenuante ripetizione, ecco che la libertà si pone fuori dal tempo, essa simboleggia proprio il presente che stiamo cercando;

la matematica e la logica hanno per oggetto delle verità sempre valide e sempre presenti, a cosa ci rimandano queste?

Se cerchiamo il presente, in realtà cerchiamo un'altra eternità, un'eternità forse perduta, ma che è alla portata di mano. Solo l'eternità è una e sempre, il tempo è molteplice e tutto fa divenire. Forse le cose stanno in questo modo:

non c'è l'eternità opposta al divenire, ma una sola realtà che può essere letta

come un solo presente eterno ricomposto

o un'infinità di tempi frammentati.

 

Un uomo girava solitario nel profondo di se stesso, la domanda sul suo essere lo tormentava parecchio, diceva: se sono ora questo, dopo cosa sono?

Sono già cambiato molte volte, diceva tra sé. Si chiedeva ancora: sono questo o sono quello di prima?

Si guardava allo specchio, lo specchio doveva dire la verità, ma nello specchio lui vedeva solo immagini. Solo immagine noi siamo? 

Il corpo è un'immagine e questo lo vediamo con i nostri occhi, lo vedono anche gli altri e possiamo rimirarlo riflesso su uno specchio d'acqua. Quando noi sentiamo qualcosa, quando per esempio il nostro corpo urta contro qualcosa o il vento ci accarezza, in quel momento constatiamo che qualcos'altro del corpo esiste oltre la semplice materia.

Se questa materia coincide con quello che percepiamo, ebbene noi percepiamo solo un'immagine, ma le nostre sensazioni non sono riducibili ad immagini; un altro corpo sembra presentarsi a noi.

Questo uomo rifletteva sul fatto che un semplice sorriso sull'immagine nello specchio non avrebbe mai di per sé avuto il significato della felicità, si sarebbe trattato solo di una maschera, ma le emozioni rimangono ancora dentro di noi, noi soli le sentiamo nel nostro segreto noi stessi.

Che cos'è il noi stessi?

Si chiedeva questo uomo, mentre già aveva capito che il problema è sempre quell'io sento, quell'io penso, quell'io sono felice, che sta dietro ogni sensazione, pensiero ed emozione. Mentre osservava questi pensieri correre come cavalli sulla prateria, queste sue emozioni volare come aquile e queste sue sensazioni nuotare come pesci, cominciò a capire che tutti questi non potevano essere più che degli animali del suo mondo interno, ogni volta che pensava si identificava con il suo pensiero, ogni volta che provava emozioni riteneva di essere quello, ma di per sé nulla di tutto questo poteva essere vero.

Di fronte ad un flusso di vissuti non si staglia nessun io che nello stesso tempo non si dissolva in questo stesso flusso, l'io è fasullo:

ogni volta sembra essere pensiero, emozioni e altro ancora a seconda del momento e a seconda di ciò con cui noi vogliamo identificarci.

Quest'uomo aveva però capito una cosa: c'è sempre una scelta in tutto questo, quando noi decidiamo di affidarci al nostro pensiero, quando noi ci lasciamo trasportare dalle emozioni, quando riteniamo di essere questo o quello, noi prima di tutto scegliamo.

Potremmo non scegliere nulla, ma sarebbe comunque una scelta. Non siamo proprio nulla diceva questo uomo dalla sua saggezza conquistata, noi siamo aperion:

pura indeterminazione, ma forse proprio questo costituisce una radice di grande libertà interna.

 

Quando cerchiamo noi stessi possiamo fare due cose: identificarci con i nostri contenuti, oppure cercare oltre questi.

È stato creduto che se avessimo tolto tutti i contenuti da noi stessi sarebbe rimasto un contenitore vuoto, come una scatola cranica senza cervello, un pacchetto di Amazon senza merce.

Di fatto sarebbe davvero difficile dire cosa dovrebbe essere questa scatola vuota che qualcuno ha detto anima. La fenomenologia ha dimostrato che è inseparabile la coscienza da suoi oggetti intesi, per questo si parla di intenzionalità,

ma allora perché non dire altrettanto della mente con le sue idee?

E perché non parlare anche dell'anima?

Da un lato se pensiamo di essere i nostri contenuti diremo che siamo ciò che abbiamo vissuto, ciò che abbiamo fatto, pensato, il nostro carattere e così via; se invece non crediamo in questo, se cerchiamo oltre troviamo non la scatola vuota, ma solo l'abisso, l'indeterminazione originaria, la pura possibilità, la scelta a fondamento.

È come un foglio bianco su cui è stesa la scrittura: qui l'inchiostro non macchia il foglio, non impregna, rimane leggero sulla superficie, quasi aleggiante.

È vero: noi siamo la nostra storia, il nostro divenire, cosa altro potremmo essere se no?

Ma ci sarebbe mai un divenire se noi restassimo sempre uguali tali quali siamo?

Ci sarebbe mai un divenire se non fossimo liberi di cambiare?

Ci sarebbe mai un divenire se non fossimo indeterminazione in origine prima di essere determinati quali siamo ora?

No, non ci sarebbe nessun divenire. È proprio questo il problema: se non fosse per il presente ritrovato non ci sarebbe modo nel tempo di far divergere il passato dal futuro; se non fosse per questa indeterminazione originaria non saremmo davvero liberi di cambiare.

 

Il divenire è qualcosa di aperto, appena lo si pensa in quanto tale, proprio perché le cose sono determinate in un certo modo, proprio queste dovranno tornare infinite volte finché questa ripetizione non verrà spezzata.

Nelle cose la ripetizione non avviene mai senza che si dia del Nuovo, anzi la ripetizione è proprio di questo Nuovo, come spiega Deleuze, non del Medesimo.

È una cattiva ripetizione quella del Medesimo, dice Deleuze, parlando delle malattie mentali.

Questa malattia è ciò da cui la psicoanalisi vorrebbe anche guarire i pazienti portandoli verso una ripetizione libera, del Nuovo. L'uomo se continua in un medesimo carattere è evidentemente prigioniero del Medesimo.

Una ripetizione dell'Identico è ciò in cui l'uomo è rimasto intrappolato, questa ripetizione è la stessa di cui parlavo a proposito dei miti greci.

Il divenire originariamente non è nulla, non una determinazione specifica, ma tutte le possibili, una pura indeterminazione, un grande indifferenziato. Le cose che divengono sono già un risultato del divenire e tutte le ripetizioni che avvengono in questo mondo, gli eventi, le stagioni, la vita di tutti i giorni, in realtà sono solo delle ripetizioni apparenti, o come direbbe Deleuze: "per sé".

Solo l'uomo è riuscito a costruire una ripetizione del totale identico, l'uomo è capace di ridurre se stesso ad una statua, ad una macchina ripetitiva.

Tutte le identificazioni dell'uomo creano questo meccanismo che di fatto produce una ripetizione meccanica dell'identico. Da ciò si deduce che la libertà dell'uomo sembra porsi come un problema del tempo,

questa ripetizione meccanica l'uomo può superarla cercando di cambiare il futuro rispetto al passato, questo può avvenire solo nella dimensione del presente, nel presente l'uomo deve cercare quella dimensione di indeterminatezza originaria che potrebbe rompere queste catene.

Allora il problema ci si pone è: come posso diventare altro, quindi cambiare, rimanendo me stesso?

Qui è cominciata l'idea dell'identità singolare.

 

Un oggetto è fatto di tante parti, tutte le parti dell'oggetto mutano incessantemente almeno un po' anche se nulla di tutto questo si nota ad occhio nudo.

Noi possiamo stare sdraiati su un divano, tutto sembra immobile, tuttavia milioni di particelle si muovono in noi, il nostro sangue scorre, il cuore pulsa e la Terra compie il suo giro attorno al Sole.

Come possiamo dunque ancora dire che le cose sono sempre le stesse, che il nostro pianeta è ancora quello che conosciamo, che siamo quella persona con quel nome,  che il divano su cui siamo seduti è lo stesso divano che anni fa abbiamo comprato?

Una volta si diceva quell'Identico in tutti i mutamenti è la sostanza, ciò che cambia sono gli attributi, ma se lanciassimo un'intera collezione di bicchieri in vetro per terra: che cosa rimarrebbe di loro?

Mille schegge di vetro che sembrano solo riprodurre gli attributi generali della presunta sostanza e ovviamente nessuna traccia di questa sostanza.

La filosofia ha smesso da molto tempo di guardare dietro le cose per spiegare la realtà, ha scelto di vedere le cose come stanno. Ma come stanno le cose? Un oggetto muta, tuttavia io posso comunque riferire questi mutamenti allo stesso oggetto, basta che concepisca tutti questi mutamenti e questi attributi dell'oggetto in una lunga catena che ne rappresenta tutta la sua storia: questa è l'identità singolare.

Si potrebbe pensare che si tratta semplicemente di una questione di memoria, così aveva pensato l'empirista Locke: solo la memoria può costruire un'identità.

Se così fosse l'identità esisterebbe solo per quelli che hanno memoria e solo nella loro memoria, perché di fatto non ci sarebbe proprio nulla, l'oggetto non avrebbe nella realtà nessuna identità.

La mia idea è molto diversa: tutta quella storia di qualità è proprio nell'oggetto qui ed ora.

Se noi siamo quello che siamo stati, lo siamo anche adesso, le rughe del nostro corpo sono passato che si iscrive, l'esser gobbo parla del nostro continuo sforzo di chinarci per tutta la vita, le ferite sul corpo e tutto il resto si sovrappongono e nulla scompare, tutto viene segnato come segni di qualcosa che ora non è semplicemente più la qualità dominante di noi stessi.

L'identità singolare di fatto funziona quasi come una formula di chimica, o almeno ha un aspetto simile. Un'identità singolare formalizzata su carta potrebbe apparire in questo modo:

 

       D - D

A B C – C E – E K- K G H

 

Un primo gruppo di parti (ABCD) costituiscono le parti originarie dell'oggetto,

quando l'oggetto muta (DCE),

alcune parti rimangono le stesse (DC),

queste parti creano un legame il vecchio,

danno una continuità (-),

altre sono nuove (E).

In una fase successiva (EK), avvengono altre trasformazioni e non c'è più nulla che appartenga al nucleo originario, tuttavia esiste pur sempre una continuità di catena: la parte "E" è rimasta uguale e si aggancia a ciò che la precede.

Questa espressione che io ho usato per indicare l'identità singolare non è che una forma, di fatto ogni lettera nel caso particolare avrà un suo corrispettivo, ma questo corrispettivo non è mai una specie:

non si dice mai che una cosa è rossa senza attribuirgli la specie del rosso, ma questo modo di predicare attribuisce qualcosa di generale ad un particolare perché si tende a considerare la cosa idealmente, tuttavia ogni oggetto rosso ha il suo rosso specifico.

Le parti di un'identità singolare sono qualità individuali, si potrebbe dire "tropi", come dicono alcuni filosofi, io dirò meglio: espressioni di strutture.

Ci sono delle strutture di fondo nella realtà, queste strutture sono come dei codici, senza queste strutture nulla sarebbe conoscibile, esse sono, in un certo senso, quelle specie a cui prima mi riferivo.

Il rosso in generale è una struttura, il rosso singolare non è altro che un'espressione di questa struttura.

Le strutture seguono uno schema a ramo: il codice ha una radice, per esempio se una cosa è materiale deve avere una radice originaria nel codice che corrisponde a questo essere materiale, la materia è uno degli stati originari dell'essere.

Quando mi riferisco alle cose solide aggiungo elementi alla radice del codice materia. I codici o le strutture sono essenze, ma sono anche stati. Il piano delle strutture è lo stesso piano di ciò che è universale e generale.

Se si potessero derivare tutti gli enti individuali da questi codici o quelle strutture, questi enti differirebbero solo per gli ultimi elementi del codice, ma, a parte il paradosso che deriva dal pensare l'individuale come mera prosecuzione dell'universale, questo ridurrebbe di molto le differenze tra gli enti.

Il piano dell'individuale non può essere derivato da quello dell'universale, tuttavia dividendo e opponendo semplicemente questi due piani si otterrebbe uno scomodo dualismo che non sarebbe adeguato per spiegare come questi piani comunichino (perché un oggetto pur avendo il suo rosso individuale, è comunque rosso).

La mia soluzione è questa:

tutte le parti delle identità singolari che compongono le cose singole non sono altro che espressioni di queste strutture, le differenze sono nel modo di esprimere, non nei codici. In una tela completamente rossa (struttura) si formano dei punti in cui il colore si addensa, altre volte il colore è meno presente, tutti questi punti sono espressioni della struttura.

 

Jackson Pollock è uno dei migliori pittori che conosca, i suoi quadri hanno molto da dire su questa realtà di cui sto parlando, forse più di ogni altra cosa.

I Pali blu rappresentano questa totale indeterminazione tipica dell'hegeliano essere=nulla, prima sta uno sfondo bianco che non può essere separato dalla tela come nulla originario;

successivamente l'essere di questo nulla, tutti quei colori sulla tela non sono altro che questo caos indeterminato in cui a fatica si distingue qualcosa;

alla fine si vedono questi famosi pali blu come determinazioni definite, l'unica cosa che si distingue nel caos come qualcosa di effettivamente determinato come palo blu, questi pali blu esprimono delle strutture da quel caos indeterminato che hanno alle spalle, sono risultati di un divenire.

Quello dei pali blu è forse uno pochi quadri in cui si riesce distintamente a riconoscere una figura, negli altri persiste semplicemente questo caos originario che è lo stesso divenire, lo stesso virtuale e le sue strutture di fondo. Quando guardiamo attentamente certi quadri ogni tanto sembra affiorare qualcosa da quel mondo: un volto, forse una scritta, delle ragnatele, dei fiori.

Credo che le cose stiano come le dipinge Pollock:

un mondo indeterminato immanente e delle espressioni individuali trascendenti che ogni tanto sembrano affiorare da questo mondo abissale, queste espressioni trascendenti sono le componenti delle identità singolari che sono altro che una lunga catena formata da queste espressioni.

 

Noi siamo la storia di noi stessi, come mi è capitato già di dire, ma la storia di noi stessi è un divenire e se non cambiassimo sempre non ci sarebbe nessun divenire, noi semplicemente rimarremmo quello che siamo.

Questo errore deriva in particolar modo dal pensare che noi siamo solo l'ultima parte del codice della catena dell'identità singolare, in realtà siamo tutto il nostro passato e davanti a noi si staglia quel punto di apertura dell'infinito che è ciò che noi chiamiamo normalmente futuro.

Il futuro è quel non essere, come pura possibilità che si staglia davanti a noi, tutto ciò che è come determinato, è semplicemente passato. Solo l'uomo è stato capace di inventare la sua ripetizione ed ingessarsi in un'identità che lo ha bloccato impedendo il suo divenire.

Noi in quel momento, nel momento in cui ci identifichiamo diventiamo come delle statue immobili, diventiamo vittime noi stessi del nostro personaggio o della nostra persona, quindi del nostro carattere.

Si può cambiare, ma in questo caso, per farlo, si deve cercare l'indeterminazione originaria che noi stessi siamo, quella forza decisionale che viene prima di ogni nostro pensiero, emozione, parola, azione, quella forza che ha scelto l'identificazione e che ora deve scegliere semplicemente se stessa. Essere se stessi non significa semplicemente fare i diversi, significa non essere un bel niente, non essere nessuno, perché non essere nessuno significa davvero che si può essere quel che si vuole a patto di non identificarsi.

Si potrebbe dire con Cioran: "essere liberi significa esercitarsi a non essere niente", in questo caso il nichilismo sarebbe positivo e non negativo, come in Cioran, esso costituirebbe l'idea stessa dell'infinito positivo che coincide perfettamente con il vuoto, perché il vuoto dispensa pienezza.

È bella l'immagine che offre Ken Wilber di questo io come navigatore di onde:

Wilber afferma che esistono varie strutture della realtà, queste strutture sono degli oloni perché ognuna rappresenta un intero e contiene le precedenti; le strutture sono:

la materia, la mente, l'anima e lo spirito, l'io non è l'anima o una delle altre strutture, è come un navigatore che le attraversa tutte sperimentale una per una, l'io vero e proprio non è niente, nessuna delle strutture in particolare, ma se si identifica finisce il tragitto, forse pensare di essere la mente e a quel livello rimane.