A proposito di vino e parole
È cosa nota che il vino sia in grado di assorbire le profumazioni circostanti.
Ho letto di una ricerca svolta in Piemonte che avanza addirittura l’ipotesi di una somiglianza tra il vino e il suo produttore.
In altre parole il vino vive in una condizione di scambievolezza con il contesto circostante.
Un amico sostiene da anni che uno dei problemi dell’agricoltura è pretendere un certo tipo di risultato senza tener conto della vocazione che ha un suolo o che ha un territorio.
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Negli ultimi anni l’ipotesi di maggior profitto ha inquinato le libere scelte, e questo non soltanto nell’ambito dell’agricoltura.
A me conforta sapere che da qualche parte c’è sempre chi non si rifugia in queste logiche.
Le onde e gli stagni sono acqua comunque.
Ma vuoi mettere cos’è più divertente e vitale?
A proposito di vino, qualche giorno fa un collega mi ha regalato una bottiglia di Montepulciano d’Abruzzo ricordandomi che ha un sentore alcolico iniziale molto forte e una persistenza di dolcezza nel finale.
Probabilmente non sa che sono astemio.
Ho comunque apprezzato molto il regalo e soprattutto il biglietto nel quale c’era scritto “nel vino gli zuccheri e l’alcol stanno in relazione particolare tra loro. Però ricordati che sono una coperta corta, se copri la testa i piedi restano nudi e viceversa”.
Ho compreso allora che si tratta di un’alchimia, di un processo di combinazioni.
Un po’ come con le parole, per le quali però non sono astemio.
Ci sono sempre meno parole, nel nostro vocabolario giornaliero, e tanti significati o per meglio dire slittamenti semantici.
Un’amica, insegnante di latino e greco al Liceo, mi ha ricordato qualche giorno fa che gli effetti delle costruzioni in latino sono andati perduti nella nostra lingua e dunque nei nostri costumi e nelle nostre abitudini.
Resistono nella lingua tedesca, che con il latino ha in comune il sistema delle declinazioni, dei casi.
Pure in tedesco il verbo va alla fine della frase.
Se dunque non ascolti fino in fondo la frase il senso può sfuggirti.
Ho studiato tedesco alle scuole superiori e all’università con la prof.ssa Ascarelli e mi sono fatto l’idea che questa necessità, ovvero ascoltare le frasi fino in fondo, abbia creato una maggiore capacità all’ascolto.
E pur vero che la nostra capacità di ascolto, in generale, si sta dissolvendo al di là delle costruzioni grammaticali.
Spesso non ascoltiamo per capire, ma per rispondere.
Ne sono sempre più convinto.
Viviamo in una società in cui non ci interessa quello che gli altri hanno da dirci, poiché tutto quello che conta è ciò di cui siamo fermamente convinti.
“La gente non ascolta, aspetta soltanto il suo turno per parlare” scrive lo scrittore e giornalista statunitense Check Palahniuk.
Si assiste inoltre a un radicale impoverimento delle parole utilizzabili che nel contempo si caricano di accezioni non proprio ortodosse.
È aumentata – è evidente a tutti - la capacità di sostenere una tesi e il suo esatto opposto.
Credo però che scrivere e parlare in modo chiaro non significhi necessariamente far ricorso a un vocabolario per così dire povero.
Al contrario, sono fermamente convinto che la ricchezza espressiva vada concepita come occasione di confronto e quindi approfondimento.
Una grande occasione da riscoprire e ricercare.
Se nel vino gli elementi possono restare nella stessa posizione dal punta di vista chimico, ma sollecitando la nascita di nuovi equilibri si possono ottenere percezioni differenti.
Così con le parole dobbiamo riscoprire il potere di produrre trasformazioni, che possono diventare lo strumento per cambiare il mondo.
“Le nostre parole sono spesso prive di significato – ricorda Gianrico Carofiglio – e ciò accade perché le abbiamo consumate, estenuate, svuotate con un uso eccessivo e soprattutto inconsapevole”.
Le abbiamo, in altre parole, rese vuote.
Non verrebbe mai in mente di bere una bottiglia di vino vuota.
Per iniziare di nuovo raccontarci, dobbiamo rigenerare le nostre parole.
Dobbiamo restituire loro senso, consistenza, colore, suono, odore.
“Non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parola” scriveva la poetessa statunitense Emily Dickinson.
Foto di Luca Brunetti