Etnie ed integrazione: ma chi le vuole veramente?

Integrazione: assimilazione, inserimento di individui o gruppi in un ambiente sociale, in una comunità: i. degli immigrati || i. razziale, mescolanza tra etnie diverse.

 

Con l’inarrestabile flusso migratorio a cui l’Europa tutta è ultimamente sottoposta, la parola integrazione sembra essere l’unica vera soluzione per far sì che in qualche modo e sotto diverse forme i gruppi etnici ospiti e residenti possano trovare un modo per vivere insieme in maniera pacifica ed armonica.

Facile a dirsi, molto più difficile da compiersi. Xenofobia, crisi economiche, mancanza di sicurezza, politiche carenti sembrano andare in direzione opposta.

 

Eppure tutti, ma dico tutti, ne parlano, bene o male, individuando nell’integrazione il pomo della discordia.

Qui in Italia gli addetti ai lavori come governo ed autorità locali, si interrogano su come metterla in pratica, cercando soluzioni e metodi che spesso però sono più frutto di idee improvvisate che di un’ attenta programmazione.

Mentre gli italiani, intesi come popolo, non sembrano sempre così disposti a recepirla e ad attuarla, anche perché è dal loro quotidiano e dal loro tessuto sociale che questa deve passare, non certo da quella dei politici che la propongono.

Certo ci sono delle eccezioni, ma, diciamolo francamente, l’arrivo di immigrati provoca quasi sempre malumori e proteste da parte di chi li deve accogliere, soprattutto quando i numeri degli ospiti sono così alti.

Già, gli immigrati.

Ma siamo poi così sicuri che loro vogliano realmente integrarsi nel paese che li accoglie?

Si, perché comunque l’integrazione non ha soltanto bisogno di solidarietà da parte di chi riceve, ma di un’autentica determinazione nel realizzarla anche da coloro che arrivano.

Ed è un punto niente affatto trascurabile, anche se sfortunatamente ampiamente trascurato.

Nei paesi del Nord Europa il numero degli immigrati è, per ragioni storiche, molto più alto del nostro. Parigi ad esempio è la capitale del Nord Africa in Europa, Londra dell’India e Berlino della Turchia. Tantissimi quartieri di queste città sono abitati quasi interamente da diverse comunità etniche che rappresentano una considerevole parte della popolazione.

Vivono ormai da decine di anni relativamente in pace tra loro, ma parlare di integrazione è quantomeno azzardato. Abitano nelle loro biosfere che si sono ricreati e dalle quali si guardano bene dall’uscire. Molti direbbero, giustamente, che il più delle volte non hanno avuto altra scelta, ma, alla fine poi, siamo così sicuri che sia solo una questione di opportunità?

Per non parlare degli Stati Uniti, paese fondato sull’emigrazione, dove la caratteristica principale è proprio la convivenza tra altissimi numeri di popolazioni e gruppi etnici differenti.

Anche lì si vive perlopiù in pace, ma, al contrario di quanto sembra, parlare di integrazione ancora una volta è molto difficile.

Non a caso ho aperto questa mia riflessione con la definizione di integrazione:

mescolanza tra etnie diverse, inserimento nel tessuto sociale.

Un paio di anni fa ho avuto la fortuna di passare del tempo in un piacevole sobborgo di Lafayette, Louisiana, Stati Uniti, chiamato Breaux Bridge, ospite di una famiglia americana del luogo di origini irlandesi, che possedeva una tipica “mansion” degli stati del sud, una grande casa con un’infinità di stanze la più piccola della quale poteva tranquillamente ospitare una famiglia di 5 persone.

I proprietari, particolarmente gentili ed ospitali, vivevano in un’area a stretto contatto con molte comunità nere (la Louisiana è uno stato con un alto numero di afroamericani).

L’ultimo giorno prima di partire, una domenica per l’esattezza, chiesi al figlio più grande dei nostri ospiti dove fosse possibile assistere lì in zona ad una funzione Gospel in una chiesa frequentata da afroamericani.

   La sua reazione fu quantomeno sorprendente. Era come se gli avessi domandato dove potessi prendere uno shuttle per una passeggiata sulla Luna. Tipo: tu bianco italiano chiedi a me bianco americano dove cantano i neri?

Vi assicuro che non c’era nessun sottotitolo razzista nella sua reazione, nessun commento, neanche celato. Non era davvero quella una famiglia che nascondeva i cappucci bianchi in cantina.

Piuttosto una reazione di stupore, come se gli stessi parlando di una cosa che in quel luogo non può mai accadere. Stessa reazione da parte del padre e della madre.

Così, senza darmi per vinto, ad una stazione di servizio decisi di porre la stessa domanda ad un signore afroamericano. E la reazione fu ancor più forte e marcata. Tipo: tu bianco europeo vieni a chiedere a me afroamericano una cosa del genere? Ma da quale film di fantascienza esci?

Sono cocciuto di natura, così continuai a rivolgere la stessa domanda ad altri afroamericani sempre ricevendo più o meno la medesima reazione. Solo all’ultimo, quando ormai stavo per rinunciare, una gentile signora mi spiegò che ormai l’orario delle funzioni era passato ed era inutile cercare, anche lei comunque con una notevole dose di incredulità. Per carità, da parte loro nessuna scortesia od ostilità, solo un’evidente reazione di sorpresa.

Glen, un mio amico, di mamma irlandese e di papà nigeriano che vive a Londra, mi raccontava di quando a lui ed ai suoi amici (di colore ovviamente) durante i week end capitava di spostarsi nei paesini vicino la grande metropoli per fare le classiche gite fuori porta, magari per assaggiare i prodotti di qualche birrificio del posto (non certo per le delizie culinarie).

Un gruppo di ragazzi e ragazze di colore che giravano per questi villaggi, ricevendo spesso reazioni discutibili, come quella di un signore residente di razza bianca che al loro ingresso in un pub locale li accolse con fare sprezzante mettendosi in bocca e mordendo con forza un Mars al cioccolato… un episodio isolato?  A quanto sembra non proprio.

Così come ricordo che girare con loro per locali a Londra significava frequentare solo club con musica R&B o Hip Hop frequentati da neri con qualche rara eccezione (io una di quelle).

Spesso chiedevo loro di andare ad ascoltare una rock band in un pub al centro, dove c’erano perlopiù da bianchi, e le loro facce erano tra il disgustato e l’incredulo.

Qui in Italia il problema è più giovane ma esiste, anche se la nostra natura di popolo è sicuramente più tollerante e portata all’accoglienza, rispetto alle fredde civiltà del Nord.

Basti pensare a Lampedusa e ai santi che la abitano per farsi un’idea, ed il film di Rosi “Fuocoammare” ne è una credibile testimonianza.

Ma dire che nel nostro paese l’integrazione è cosa nostra sarebbe quantomeno un azzardo, e ripeto quando parlo di integrazione mi riferisco ad entrambi i lati del problema.

Nella mia città, Roma, ci sono quartieri come l’Esquilino dove, nei pressi di Piazza Vittorio, è praticamente impossibile a volte incontrare anche solo un europeo.

Mi è capitato di camminare per quelle strade e di sentirmi realmente un intruso.

Quindi, mi chiedo, che senso ha parlare di integrazione se né gli occidentali né tantomeno gli immigrati, anche di varie generazioni, hanno interesse o anche curiosità per le differenti culture, usanze e costumi con cui convivono?

Se un bianco americano considera il suo vicino di casa nero come un alieno anche se vive lì da generazioni, se un afroamericano considera un italiano una stranezza nella sua celebrazione domenicale, se un nero inglese crede che andare ad ascoltare musica rock in un pub di bianchi significhi tradire le proprie origini e venir meno al senso di appartenenza e se un cinese che nasce e vive in Italia considera festeggiare il suo compleanno con degli italiani o degli arabi come impensabile, senza parlare neanche da lontano di matrimoni misti, allora che senso ha parlare di integrazione?

Voglio dire, ma in fondo in fondo chi la vuole veramente?

I Rom vivono isolati per scelta, così come la maggior parte delle comunità etniche di emigrati. Nessuno muore dalla voglia di mischiarsi. Tutti cercano un lavoro ed una sistemazione, per poi in fretta formare dei gruppi con i quali ricreare un angolo del loro paese abbandonato.

E noi abitanti del West World li guardiamo da lontano, con diffidenza, interpretando spesso la loro presenza come una minaccia ai nostri privilegi.

Ok, un argomento enorme che non si può certo pensare neanche lontanamente di affrontare così, ma il punto è che la natura umana non è poi forse spontaneamente portata per l’integrazione, almeno come definita all’inizio di queste mie parole. Sembra quasi che sia più un simbolo, un concetto abbastanza vuoto che col passare del tempo acquisti sempre più le sembianze di un tabù.

Mi viene allora da pensare che spesso venga usata un po’ da tutti come un mezzo per salvarsi la coscienza. “Dobbiamo integrarci per vivere meglio insieme, per superare i nostri confini ideologici, le nostre barriere culturali”. Belle parole che riempiono la bocca di tutti, popoli originari ed emigrati, ma che alla fine lasciano vuoti dei posti che nessuno vuole occupare.

Eppure i tempi cambiano e corrono più veloci delle nostre idee e convinzioni, il più delle volte senza lasciarci scelta. O meglio, se non si accetta da tutte le parti come unica soluzione quella dell’integrazione nel suo più ampio significato, nel futuro ci sarà poco spazio per una vita serena e condivisa e l’inaridimento culturale non potrà che creare problemi molto più grandi di quelli che si vivono attualmente.

Lennon ipotizzava un mondo migliore senza paesi, confini e religioni, ma il punto forse non è neanche questo. Insomma teniamoci pure le nostre abitudini, convinzioni, religioni e appartenenze che alla fine fanno parte della nostra storia e dunque di noi stessi e ad alle quali siamo così attaccati, ma se poi non ci decidiamo a scambiarle con chi ci vive accanto e ne possiede altrettante, che senso ha poi averle?

Una cultura così come una religione od un’usanza vive e prospera se viene in qualche modo condivisa e può crescere e dare il suo contributo solo se diffusa nella sua bellezza e nella sua specificità.

Così come conoscerne altre può valorizzare non soltanto chi ci vive accanto, ma anche i nostri stessi “credo”. Le parrocchie isolate non producono civiltà, ma piccoli pensieri da bottega. Ultimamente la stessa Chiesa cattolica, un’entità non certo rivoluzionaria, sembra averlo finalmente capito, aprendo, dopo millenni di isolamento, le porte al dialogo con le altre religioni.

D’altronde come ho già scritto, il futuro non aspetta, si muove, fa la sua strada e prima o poi ci accorgeremo che l’unica soluzione ad un mondo sempre più stretto sarà quella di trovare un modo per condividerlo, e quindi provare a cambiare verso quella direzione: in altre parole Integrazione.

(foto da pixabay, taoxanh.net, coro gospel wikipedia.org)