I soldi non fanno la felicità
È scientificamente provato: tanti soldi non fanno la felicità (il paradosso di Easterlin)
Sì, lo sento, sento già in lontananza il coro di: «Prova a dirlo a chi non ha da mangiare!».
Il punto non è esattamente questo: è chiaro che non si sta parlando di sopravvivenza.
Non cʼè dubbio che senza adeguati mezzi di sostentamento non si è felici e un primo passo per esserlo (almeno un po’) è il raggiungimento di un minimo benessere economico.
Si potrebbe allora specificare che "avere i soldi che ci consentano di andare ben oltre la soglia della sopravvivenza non dà la garanzia di essere felici (a lungo)". E non è solo un banale luogo comune:
in fondo è esattamente quello che sostiene il paradosso di Easterlin, chiamato anche "paradosso della felicità", formulato nel 1974 da Richard Easterlin, professore di economia dellʼUniversità della California (e recentemente riconfermato da uno studio pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Sciences;
il pioniere di questi studi però, non è stato un economista, ma uno psicologo sociale, Hadley Cantril, che nel 1965 immaginò qualcosa che in quegli anni fu giudicata ingenua e allo stesso tempo provocatoria: misurare quantitativamente la felicità e, soprattutto, confrontare tra di loro i livelli di felicità di diversi individui in diversi Paesi).
Secondo Easterlin, la vera felicità delle persone dipende molto poco dalle variazioni di reddito e di ricchezza:
attraverso i suoi studi ha osservato che quando aumentano reddito e benessere economico la felicità umana aumenta, sì, ma solo fino a un certo punto, e poi comincia a diminuire seguendo una curva a U rovesciata.
In sintesi, in una condizione di povertà (valida sia per gli individui che per i singoli Paesi), lʼaumento di beni si traduce immediatamente in un maggiore benessere.
Quando però viene oltrepassata la soglia che corrisponde al soddisfacimento di tutti i bisogni essenziali, questa relazione non vale più e la maggiore ricchezza potrebbe addirittura coincidere con una percezione più accentuata di insoddisfazione.
Per spiegare questo paradosso si ricorre in primo luogo alla teoria dellʼadattamento secondo la quale gli aumenti di reddito producono un miglioramento del benessere solo nel breve periodo, dopo il quale la felicità torna ad attestarsi al suo livello base: dopo un poʼ, insomma, desideriamo avere di più.
Vi è poi la teoria del livello di aspirazione.
In pratica, il miglioramento delle condizioni di vita legato allʼinnalzamento di reddito comporta un aumento dei desideri del consumatore che è in noi, che andrà alla ricerca di piaceri continui e sempre più intensi per mantenere il livello di soddisfazione di partenza.
Può quindi accadere che pur migliorando la felicità oggettiva (legata alla qualità dei beni consumati), la felicità soggettiva, ossia la nostra percezione del livello di benessere, rimanga costante.
Questo perché lʼaumento delle aspirazioni ha annullato lʼincremento di benessere legato al maggior numero di beni consumati: ci sentiamo felici dopo aver comprato un abito nuovo, ma dopo qualche tempo questa sensazione di benessere svanisce e la tentazione di appagarci con un altro abito diventa sempre più forte.
Questo fenomeno è collegato anche alla teoria dellʼ utilità marginale di un bene:
nellʼeconomia classica questa è lʼutilità apportata dallʼultima unità, o dose consumata, di un bene, espressa in termini di soddisfazione, ed è in genere decrescente. Questo però non vale nel caso in cui il bene in questione sia di tipo relazionale: in questo caso la sua utilità marginale è crescente e infatti, normalmente, chi si sente amato non è mai stanco di ricevere amore.
I beni relazionali sfuggono (e finalmente!) alle leggi del marketing e dellʼeconomia classica.
Sono beni gratuiti, come lʼamore, lʼamicizia, la tenerezza, la gentilezza, lʼarmonia, il sentimento di libertà o di giustizia, la buona compagnia, la bellezza della natura o delle arti e tutte le sensazioni per cui potremmo dire "sono cose che non hanno prezzo": potrebbero quasi sembrare i beni più importanti nella vita di una persona!
Ecco quindi che, secondo questo paradosso scientificamente studiato (ma anche secondo un poʼ di buon senso, forse) lʼidea di misurare la felicità delle nazioni esclusivamente sulla base del Prodotto Interno Lordo (PIL) comincia a vacillare.
E in effetti le popolazioni dei Paesi industrializzati sembrano in realtà meno felici e più stressate di quanto ci si aspettasse dalle loro condizioni economiche positive.
Economisti e psicologi hanno quindi iniziato a domandarsi cosa renda davvero felici le persone e su cosa si basi la felicità.
E alcuni esperti, pur continuando a tenere in considerazione il PIL, hanno cominciato a valutare anche il BIL, cioè il Benessere Interno Lordo degli abitanti di una certa nazione, città o regione: probabilmente non erano necessari studi socio-economici per intuirlo,
in ogni caso è emerso che il benessere della popolazione non dipende soltanto dal denaro a disposizione, ma anche dai rapporti sociali, dalle condizioni ambientali, dalla salute, dallʼistruzione, dalla partecipazione alla vita politica e dalle attività personali (tutto quello che rientra, appunto, nei beni relazionali).
Ritenere che il (tanto) denaro non faccia la felicità non significa comunque demonizzare il denaro stesso.
Possiamo imparare a considerarlo come qualcosa di neutro e a gestirlo al meglio per soddisfare le nostre necessità.
Perché, se da un lato "i soldi aiutano", ma al contempo non riusciamo a valutare quando sono "abbastanza" per noi, perché cʼè sempre qualcosʼaltro da desiderare, e comunque troppi "non faranno la felicità per sempre", allora che cosa facciamo?
O ci rassegniamo allʼinsoddisfazione eterna, o proviamo a colmare quello che cʼè in mezzo.
Per esempio coltivando desideri che non siano legati solo agli oggetti simbolo di una vita di successo, cercando la felicità (parola troppo grande, comunque) appena fuori dal circuito che giornali, televisione e "Capitan PIL" tengono sempre ben illuminato per noi, provando quindi a spingerci nellʼombra di piaceri meno appariscenti e più duraturi delle mode, ricercando i beni che possono arrivare dalle relazioni umane o dalla creatività.
Vale la pena tentare, perché si sta parlando della nostra vita (che non è un grafico!).
La nostra parte di mondo
È nebbia, dallʼalto,
solo nebbia di oggetti
rincorsi
afferrati
(non) consumati
gettati,
pulviscolo denso
di raffinati inganni
signorili insensatezze
prestigiose bugie
irrinunciabili desolazioni
lussuosi abbandoni
modernissime solitudini.
È nebbia, dallʼalto,
triste sudore di inutili fatiche.
(Irene Marchi, da Fiori, mine e alcune domande, Sillabe di sale Editore, 2015)
(fonti treccani.it, wikipedia.org)
(foto da Irene Marchi)
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