Cambiare il Paese per non cambiare Paese
“Felice colui che ha trovato il suo lavoro; non chieda altra felicità” afferma il filosofo e saggista scozzese Thomas Carlyle.
Nel 2010 due economisti di Harward, Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart, affermarono che
se il debito pubblico superava il 90% del Pil la crescita di un Paese era compromessa per almeno 25 anni.
Uno studio molto accurato, confrontando i dati economici di molti Paesi tra il 1945 e il 2009, che sembrava quindi dare solide e inconfutabili basi scientifiche ai governi che avevano deciso di mettere in atto politiche di austerità.
Il primo pensiero allora fu “figuriamoci l’Italia che ha un debito pubblico superiore al 130% del Pil”.
Peccato che dopo tre anni, pare a causa di un problema del software Excel che aveva escluso alcuni Paesi e alcuni anni che avrebbero modificato il risultato, la comunità internazionale apprese con smarrimento che i risultati di Rogoff e Reinhart erano sbagliati!
L’economia si era separata dalla filosofia e dall'etica per affidarsi esclusivamente alla statistica, evolvendosi in econometria in un cortocircuito pericoloso.
Ancora oggi il principio per il quale le idee e gli studi economici dovrebbero sempre camminare sui numeri, pare sia stato abbandonato.
Quel principio di buon senso per il quale se i numeri non confermano, le idee sono sbagliate e vanno cambiate.
Nell'ultimo rapporto dell’Istat è scritto nero su bianco il fallimento di un’intera classe politica.
L’Italia governata a suon di austerità, senza mettere mano a riforme strutturali, si è trasformata in un Paese diseguale, impoverito e senza più mobilità sociale.
Le conseguenze, ancor prima che economiche, sono politiche.
Solo l’otto per cento della popolazione dai quattordici anni in su segue la politica attivamente attraverso forme di partecipazione.
La politica sembra sempre più un affare per vecchi e ricchi.
Ecco allora che nell'Europa delle frontiere aperte e dei voli a basso costo per molti giovani italiani andare a lavorare all'estero non è più un’opportunità ma una strada obbligata.
Se fino a qualche anno fa andare all'estero a cercare fortuna era una scelta, un’esperienza di vita che poteva durare anche soltanto alcuni mesi, oggi una società vecchia, arrugginita, incapace di offrire opportunità e alternative, obbliga tanti giovani a non rimanere, ad affermare malinconicamente “basta, io non voglio più restare”.
Giovani che non si arrendono, non sono bamboccioni né choosy – tanto per citare i maldestri appellativi utilizzati da alcuni politici - bensì fanno parte di una generazione perduta, abbandonata, che però rifiuta una sconfitta che pare già scritta.
Un cambiamento qui e ora, che permetta loro di restare in Italia, non solo è quindi auspicabile, ma strettamente necessario.
Ho appena terminato di rileggere un interessante libro di un giovane autore, Gianluca Daluiso, classe 1992.
Come molti della sua generazione, Daluiso, giornalista professionista del Fatto Quotidiano e conduttore a Radio RAI2, si è domandato se fosse il caso di espatriare o piuttosto mettere radici in una terra infeconda, avara di futuro e inclemente con i giovani.
“I giovani e gli innamorati sono gli unici che ci potranno salvare dalla depressione economica e morale” scrive Massimo Gramellini.
Il titolo del libro Cambiare il paese per non cambiare paese è dedicato ai giovani, ma rivolto a tutti gli italiani.
L'Italia è frammentata e ha bisogno di ritrovare la propria identità per risolvere i problemi che la affliggono.
Daluiso non racconta soltanto cosa non funziona bensì decide, probabilmente per la prima volta, di intervistare esperti di ogni settore, raccogliendo i loro punti di vista sul nostro Paese.
Senza guardare soltanto al mondo politico – e questo è l’aspetto che ho più apprezzato - ma a tutti i cittadini.
Tutti proprio tutti perché anche una singola persona, nel suo piccolo, può e deve contribuire in maniera determinante al cambiamento.
“È arrivato il momento in cui il coraggio deve essere più forte della paura e la speranza più forte della rassegnazione”
afferma Daluiso.
Quasi a ricordarci che l'alternativa alla fuga dipende soltanto da noi.
Nel libro si discute di informazione con Marco Travaglio, di ambiente con Luca Mercalli, di Giustizia con Nicola Gratteri, di Sanità con Cecilia Strada, di Donne con Milena Gabanelli, di Satira con Antonio Albanese e di Mafie con Gian Carlo Caselli.
E ancora di Sport con Pierluigi Pardo e di Lavoro con Maurizio Landini.
C’è anche spazio per un interessante intervento di Roberto Vecchioni il quale ritiene che “se c’è un’importante opportunità che possa mostrare il valore di un italiano all'estero è giusto che vada. Ma se fuggire diventa un obbligo è un dramma”.
Gianluca Daluiso ha scelto di rimanere.
Perché come scrive Silvia Avallone sul romanzo Marina Bellezze “chi ha coraggio resta fermo”, riprendendo una battuta di Romeo e Giulietta.
“Un uomo che vuol lavorare e non trova lavoro è forse lo spettacolo più triste che l’ineguaglianza della fortuna possa offrire sulla terra” cito ancora Thomas Carlyle.
Un libro, consigliatomi qualche tempo da Sara Arizzoli, bravissima manager letteraria, che torna nel momento giusto e suscita in me ulteriori riflessioni, un po’ di pancia e molto di cuore.
Da sempre credo che il migliore amico sia colui con cui ti puoi sedere sotto un portico senza dire neppure una parola, e a poco a poco sentirti come se avessi avuto la più bella conversazione del mondo.
Oltre quindici anni fa mio fratello, ingegnere elettronico, si è trasferito nella Silicon Valley in California, e più precisamente a Palo Alto nel versante settentrionale, per inseguire i suoi sogni lavorativi, irrealizzabili nel nostro Paese.
Ricerca e sviluppo, due parole divenute un tabù in Italia.
Quasi cinque anni fa mia cugina Elisa, dopo aver provato a cambiare il nostro Paese è stata costretta a cambiare paese trasferendosi in Inghilterra prima e in Svizzera poi e precisamente a Losanna.
Lavora come motion graphic designer presso una importante società ed è molto felice perché fa un lavoro che le piace.
Perché come scrive Lev Tolstoj “tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro” e per molti la felicità è poter vivere insieme facendo il lavoro più bello del mondo, far nascere i bambini in un Ospedale.
Due storie che apparentemente raccontano del non coraggio del rimanere, qui e ora, ma che il realtà mi confermano che spesso, invece di spendere la nostra vita a correre verso i nostri sogni, siamo in fuga dalla paura di fallire o dalla paura delle critiche.
E potrei aggiungere l’amico Valerio, toscanissimo doc, filmaker, autore e protagonista di Last Minnow Tour in onda su Sky che dal 2009 ho iniziato a viaggiare come un pazzo, trasferendosi a Bangkok.
E ancora Serena, straordinaria creativa di Montepulciano, che si è trasferita a Bochum in Germania per inseguire amore e sogni, con la sua azienda Il Pizzo Cotto che produce orecchini, cerchi e spille per capelli delicati e pieni di colori ed energia, non abbandonando la passione per i corsi di cucina.
Andare o restare quindi?
E soprattutto per quale scelta ci vuole la maggior dose di coraggio?
Continuo a chiedermelo, sempre con maggiore frequenza e insistenza.
Rimanere è davvero un atto rivoluzionario?
Oppure è soltanto un modo per non rischiare di cambiare la vita che siamo ormai abituati a vivere?
E ancora, andare fa rima con rinunciare?
Non lo so, davvero.
So soltanto che gli affetti si imprimono nel cuore come tatuaggi indelebili.
La distanza non li allontana perché possono riprendere a vivere senza bisogno di troppe spiegazioni.
Foto articolo Cambiare il Paese per non cambiare Paese di Luca Brunetti