I versi di Nguyen Chi Trung: bambini senza tetto in “My Home”
La poesia di Nguyen Chi Trung sale da un abisso insondabile, custodisce il segreto dell’esistenza, suona l’arpa del cielo anche se ci contorciamo nel dolore.
L’attesa è forte e sfiora sfere intoccabili, scava nelle origini in una vertigine celeste. In “Venti” i suoi versi si fanno infiniti e scendono negli occhi come fiume che tiene il dolore sul Golgota, nel meriggio della solitudine, nel silenzio.
Come vento il dolore si fa abbraccio affamato di luce. Si eleva nella costellazione dell’universale, fra gli elementi vitali della natura in un respiro infinito.
In “My Home”cerca con la forza della poesia nel fiume anima il villaggio “confuso” dell’esistenza, perso in una notte senza firmamento, dove l’eco dell’umanità sfiora l’inconoscibile, avvolto “nel regno del nulla”.
Come in “Venti” la nostalgia si fa potente fra due cieli che portano lo stesso dolore: l'Oriente e l'Occidente.
La Casa si fa “notte mondiale” fra il non senso che vaga nella vita dilaniata, frantumata dell'era contemporanea.
La sua sensibilità s’infrange nella sofferenza trabocca dall’orlo dell'anima, i suoi versi catturano le emozioni, rompono il marmo freddo del cuore per trasformarlo in un magma di luce nel buio. Il respiro si fa lieve, umano e si contorce nel nulla.
Chi Trung scrive “The Return” nel 2001, la ricerca della casa dell’essere si fa forte con “l’alta marea, l’acqua urla e l’oceano tuona” e “la fede religiosa indica solo quanto siamo terrorizzati di fronte alla vita”.
Versi che scavano nel respiro profondo dell’esistenza, con la semplicità e la forza che lascia il mistero nel soffio inafferrabile dell’anima.
Come orma sulla neve che sfiora l’essenza fragile della vita, della nostra vita che non trova mai la propria dimora. Il suo canto universale trasforma la tristezza in quadri, le emozioni si stagliano con la morte nell’illuminazione del momento finale della vita, con una forza empatica straordinaria.
Sono rivoli di lacrime che scendono con la forza del cielo direttamente dalla mente e dal cuore, rompono gli argini del dolore che in alcuni istanti si fa potente. Sono versi che si elevano nel fiume inviolato del cielo.
La cultura orientale ed occidentale trovano luce nella sua dimensione immaginaria, in una profondità che tocca il nulla per riemergere nel deserto esistenziale dell’uomo. La sua casa è sulla “riva del dubbio”, in questo tempo abbiamo toccato la notte, ma in essa forse c’è la rinascita.
Sono versi che più di qualsiasi voce contemporanea scavano nell’esistenza, nel nichilismo contemporaneo, per dargli corpo i una dimensione che sfiora l’indicibile, l’impensabile.
La sua lingua sale dal sudiciume con le parole essenziali della poesia in una semplicità che è dei grandi, con la consapevolezza di non essere nessuno (Elegia al Futuro Poeta 1 del febbraio 1990).
Chi Trung ha la profondità di Emily Dickinson, ogni suo verso ha in sé il segreto che l’eternità scolpisce nel dolore umano, con gli occhi dilaniati nella costellazione celeste.
Nguyen Chi Trung scrive le 64 stanze di My Home nel 1999.
L’esistenza non ha certezze fra i suoi versi, sono “bambini senza tetto” che sfuggono, si perdono nel senso e nel nonsenso.
Una casa confusa, costantemente affollata di gente durante la giornata.
L’uomo si perde in una solitudine che si fa poesia. L’infanzia del poeta è scivolata silenziosa via, vaga fra “i regni del nulla”, sul filo dell’essere e del non essere entra nella vita, nel mistero.
Trattiene i suoi versi erranti fra le dita, facendoli cadere nel giorno. Siamo esuli e non condividiamo mai nulla completamente, in ogni intesa c’è un addio.
L’esistenza è “una fornace”, mentre il poeta ara “terra arida”. Come in preghiera il suo cuore si apre al cielo per continuare a vivere la sua umanità. Il suo amore invoca profondità all’Ordine del Mezzogiorno. Bisogna vivere al comando del giorno proclamato dalla prima ora senza false ideologie.
La poesia non è delirio, l’angoscia non ha una origine.
La casa del poeta è sulla riva del dubbio eterno, con la lingua scende in profondità. Il tempo è lineare, ma la sua voce devia, rompe gli schemi dell’omologazione.
La poesia si fa profonda, tocca il cuore dell’uomo, non ha bisogno della gloria, si offre al nulla senza attendere il ritorno dal buio. Ci contorciamo o portiamo la gioia e la tristezza a parole.
Il dolore non può essere strappato dalla nostra vita, ci nutriamo “alla culla del dolore”. La natura si fa estasi, il poeta si dimentica tramutandosi in gocce d’acqua sulla veranda.
La sua casa ha due idiomi, sono lontani migliaia di chilometri e nella notte ritorna nella sua dimora solitaria. Vaga nelle tenebre, nel dolore per scrivere versi per la vita.
Il dolore cosmico s’incarna nel suo canto, sugli argini solitari della poesia contemporanea, persa ormai sulle rive del non senso.
Il suo canto ha la profondità di Leopardi, di Baudelaire con lo sguardo teso nel nulla della notte senza firmamento dell’era contemporanea. Il buio inonda gli argini e se la morte afferra la sua esistenza, il poeta si affida al fiume e la dimora del suo cuore si affaccia a casa, dove sa che non tornerà mai più.
I suoi versi incompiuti non fermano la vita, vivono nel deserto e innalzano preghiere per l’uomo. Sono versi per il cielo, per il tempo, per la terra. Gli elementi sono esseri viventi che incarnano il dove? Il quando?…all’infinito, come preghiere che incidono il cuore.
In quel canto trema l’inerzia che tesse il filo del mondo. Le sue due case sono sotto due cieli differenti, ma portano lo stesso dolore nella vita.
Il poeta deve vivere all’Ordine del Mezzogiorno e mantenere la vita “come un giardiniere che prende cura della rosa alla fine della sua vita trascorsa”( At The Behest of Noon - All’Ordine del Mezzogiorno del 2014). La notte sulla terra “inonda gli argini”, si dilata e si fa immensa.
In “Over the Bridge” dedicata a Dylan Thomas il fiume dell’esistenza si fa freddo, l’autunno “non contiene la rugiada”, l’età nichilista sulla terra è senza anima. Siamo detentori di una transizione.
La sua casa è “sul fiume Rima che fluisce nel cielo”, anche se il fiume è vuoto ora. Nessuno abita l’oggi, la sua dimora è abbandonata fra il cielo e la terra.
La paura pervade l’uomo, siamo lacerati, dilaniati sia nell'essere in profondità e sia in superficie.
La casa abita nel regno del nulla, ma nella coltre resta “un leggero tepore” dove l’addio è profonda disperazione, come un in un velo sanguigno. La sofferenza si fa cosmica e tocca il cuore dilaniato dell’uomo.
Nel “Poema Freddo” scritto nel 1981 in “Più profondo dissolversi” l’occhio dilaniato dell’uomo è sulle stelle, in questa dissoluzione profonda dell’universo, in questo pianeta ferito, vigilando sui vermi “trucidanti dentro la tomba”.
Il suo canto si fa fiore silenzioso di luce nella notte, i suoi occhi chiusi nel nulla amano la vita con forza, nonostante la prefigurazione dell'ultimo ponte. Sembrano versi che non sono di questo mondo.
Non possiamo dimenticare il dolore, dobbiamo portalo sostenendoci nella sofferenza che arriva fino alle ossa. La condivisione empatica dell’ultima stanza si fa preghiera fra anime in questa persa umanità. La sua poesia con gli occhi nel dolore si fa arpa fra le corde dell’anima, Panis Angelicus e Manna di Cielo.
Disegni di Antonella Pia Monte