Le radici del nichilismo occidentale
Nel V secolo a. C., mentre il pensiero filosofico della Grecia classica volgeva al proprio apogeo, Gorgia da Lentini affermava:
“Nulla c’è; e se anche qualcosa ci fosse, non sarebbe conoscibile per l’uomo; e se pur qualcosa venisse conosciuto, risulterebbe incomunicabile”.
In questo modo Gorgia nega perentoriamente l’equazione “Pensiero = Essere” posta da Parmenide di Elea.
Naturalmente le affermazioni del sofista siciliano vanno intese sul piano puramente logico, non su quello dell’esperienza (che nella gnoseologia greca precedente Aristotele conta poco e niente);
il linguaggio umano, poi, risulta del tutto inadeguato a esprimere realtà superiori.
Insomma, Gorgia rappresenta una radicale forma di agnosticismo sia metafisico che conoscitivo: non ritiene che l’uomo possa parlare della struttura della realtà né comprendere l’essenza profonda dell’essere, azzerando la possibilità stessa di fare metafisica e di attingere alle verità ultime e definitive.
Ne consegue che a essere rilevante è la sola potenza del linguaggio, in grado di dominare gli animi e le passioni mediante l’impiego della retorica.
Quando però si pronuncia la parola nichilismo in relazione al pensiero occidentale, il nome per eccellenza che affiora sulle labbra è quello di Friedrich Nietzsche.
Il punto di partenza è la celeberrima affermazione “Dio è morto”, che annulla di un sol colpo tutti i valori della civiltà occidentale, di matrice platonico-cristiana; per Nietzsche questo costituisce non una rinuncia, come la noluntas schopenhaueriana che egli rigetta, bensì un punto di partenza per la costruzione e l’affermazione di un nuovo concetto di uomo.
Schopenhauer aveva infatti sostenuto che annullare ogni volontà fosse l’unica via di scampo dalla sofferenza che attanaglia l’umana esistenza:
una sorta di nichilismo come fuga dal mondo, inaccettabile per Nietzsche,
che vide sì in una prima accezione del termine ogni atteggiamento di rifiuto e di disgusto nei confronti del mondo platonico-cristiano, senza che tuttavia questa risulti la posizione nietzschiana definitiva,
poiché in seguito il filosofo intense altresì riferirsi alla situazione specifica dell’uomo moderno, il quale di fronte al crollo dei valori e della metafisica tradizionale avverte un senso di vuoto e di nulla, che gli offre un’occasione unica per reagire con veemenza.
Si può dire che per Nietzsche vivere senza certezze metafisiche non significhi altro che responsabilizzare l’uomo in quanto unica fonte di valori e significati; accettare il rischio e la fatica di dare un senso al caos del mondo dopo il tramonto delle antiche certezze illusorie è il significato più pregnante del suo nichilismo:
l’oltre-uomo (questa è l’esatta traduzione italiana per il termine tedesco Übermensch, ben lungi da quella dannunziana, del tutto imprecisa, di superuomo) è colui che sa andare oltre sé stesso, che è in grado di superare il senso di vuoto e di sgomento provocato dalla “morte di Dio”;
ecco che il nichilismo diviene il punto di partenza per la volontà di potenza, ovvero il modo di essere proprio dell’oltre-uomo:
è libertà creatrice, che si erge al di sopra del caos del mondo e sa imporgli i propri significati, è sorgente di presupposti che possono ricreare l’essere a misura dell’umanità.
La volontà di potenza coincide anche con il continuo auto-superamento che la vita fa di sé stessa, nello sforzo di riproporsi senza sosta, rinnovando il proprio rapporto con il mondo.
Può il nichilismo rivelarsi quindi non una chiusura, bensì un’apertura verso nuove possibilità?
Questa appare la via indicata da Nietzsche; ma Martin Heidegger l’intraprese in un altro modo, creando la visione dell’uomo radicalmente finito, dunque in cammino verso la morte.
Il Da-Sein (ovvero l’Esserci, termine coniato dal filosofo esistenzialista per indicare l’uomo, l’unica presenza nel mondo a essere consapevole della propria esistenza e quindi interessato a essa) è in “rapporto problematico” con l’essere, poiché è quell’ente che può rapportarsi a sé stesso e al mondo solo nella forma del problema, ovvero di un insieme di possibilità; dopo una attenta analisi, che sviscera la falsità dell’esistenza inautentica, che si sottrae al vero senso dell’esistere, si perviene alla comprensione autentica, che è l’essere-per-la-morte:
l’Esserci, segnato da una radicale finitudine (Heidegger è ateo e nega qualsiasi metafisica), anziché nascondersi la verità stordendosi con le chiacchiere vuote dell’esistenza anonima, si apre all’angoscia, che è lo stato d’animo fondamentale che rivela il più proprio poter-essere dell’uomo, ovvero il suo essere in cammino verso la morte;
l’esistenza autentica, in ultima analisi, consiste in una preparazione alla morte: questo è il più puro nichilismo heideggeriano.
Le tre riflessioni qui proposte dimostrano un fatto incontrovertibile: il pensiero occidentale ha dalle proprie origini fatto i conti con il nichilismo, come alternativa alla fede nella trascendenza e nella metafisica.
Razionalista o irrazionalista che sia, dettato dalla ragione o dal suo opposto, questo tema ci appartiene.
Si può rigettarlo, senza dubbio; tuttavia non cancellarlo. Anche perché “cancellare il nulla” sarebbe un paradosso assolutamente inaccettabile per una filosofia che ha la culla nell’antica Grecia.