Hemingway, i Gatti e le Carceri
Ernest Hemingway, lo scrittore statunitense premio Nobel per la Letteratura nel 1954, amava moltissimo i gatti.
Uno dei suoi primi racconti, ambientato a Rapallo, ne ha uno nel titolo, ed è un gatto sotto la pioggia che costituisce l'occasione da cui inizia la trama.
Nella sua villa a Cuba un piano era interamente dedicato a loro:
ne aveva cinquantasette!
In Florida, nella casa di Key West non toccata dall'uragano Irma, abitano ancora i discendenti dei suoi gatti, dotati di una caratteristica particolare: sono polidattili, hanno cioè sei dita, e fu il capitano di una nave a regalare a Hemingway il capostipite, la femmina Snowball.
Lo scrittore ha lasciato di sé l’immagine di duro:
amante di caccia, safari, pesca d'altura, donne e liquori.
Ma, con i suoi felini, era estremamente tenero e, una volta, per descriverli scrisse che:
“I gatti dimostrano di avere un’assoluta onestà emotiva.
Gli esseri umani, per una ragione o per l’altra, quasi sempre riescono a nascondere i propri sentimenti. I gatti no”.
Questa caratteristica è stata evidenziata dalla pedagogista svizzera Nadine Nef che, durante la metà degli anni Ottanta, intervistò Martin Vinzens, direttore della struttura penitenziaria di Saxerriet, dove i reclusi avevano il permesso di tenere in cella i gatti.
Secondo Vinzens questi animali rafforzano la fiducia in sé e sviluppano il senso di responsabilità:
per questo si consente ai detenuti di accudirli e di prenderli con sé a fine pena.
Questi dovevano però dimostrare di non avere atteggiamenti violenti, di dedicarsi davvero a loro e di sostenerne le spese di mantenimento.
Il direttore pubblicò una relazione in cui risultava che, alla fine della sperimentazione, i prigionieri che avevano adottato un felino affrontavano meglio la solitudine e sviluppavano un maggior senso di fiducia, perché il micio offriva la possibilità di mostrare e dare affetto in un ambiente ostile.
«Il gatto mi ha aiutato a credere in me dandomi la sensazione di essere utile a qualcun altro» sono le parole di un ex ospite di Saxerriet.
In Sud Africa esiste l’istituto di massima sicurezza di Pollsmoor au Cap, con criminali molto violenti, famoso per aver ospitato Nelson Mandela.
I carcerati facevano penzolare dalle finestre delle lenzuola su cui alcuni felini si arrampicavano per ottenere cibo. In seguito i funzionari, accortisi della diminuzione degli episodi di violenza, decisero di accogliere i randagi e avviare un serio programma di pet-therapy affidando, ai detenuti che ne facessero richiesta, un micio da accudire.
Per garantire il benessere degli animali, vengono applicate severe norme e, quando i rei vengono rilasciati, escono con i loro amici pelosi.
È sorprendente ascoltarne le dichiarazioni:
«Ero sempre solo nel buio della notte. Ora ho un corpo morbido che si rannicchia contro di me e dorme fra le mie braccia. Questo gatto mi ha rubato il cuore e mi ha cambiato la vita».
Progetti analoghi sono sorti in alcuni penitenziari degli Stati Uniti, dell’Australia e del Canada, partendo dal presupposto che il gatto è un importante sostegno emotivo: non ha pregiudizi e, con la sua sensibilità, tocca le persone nel profondo dell’animo.
Il micio non è un animale che semplicemente si affeziona a chi gli dà da mangiare, ma è un essere indipendente e misterioso che regala tanto a chi riesce a raggiungere la sua essenza. La fiducia ne va conquistata e il rapporto che si instaura è paritario e basato sul rispetto.
La direttrice della sezione carceraria femminile di Brema sostiene che il contatto con l’animale sia importante perché il detenuto, soprattutto dopo lunghi periodi in cella, deve imparare a ricostruire i legami per evitare di ricadere nelle violazioni, una volta scontata la pena.
Negli U.S.A. il progetto è stato applicato negli istituti di Chesterfield in Virginia, di Yacolt a Washington e in quello di Pendleton nell’Oregon.
Si è agito in collaborazione con la Lega per la Protezione Animali, recuperando randagi da situazioni di disagio in attesa di trovar loro una famiglia, che spesso incontrano nelle persone che si recano in visita in prigione.
I detenuti sviluppano calma e sicurezza, responsabilizzandosi nei confronti di una vita la cui ripresa dipende da loro.
I detenuti sostengono che quando se ne occupano sia il momento migliore della giornata. Si stupiscono che quei felini trovino libertà e benessere dentro a un carcere: provengono da situazioni in cui hanno sofferto molto, con traumi e ferite che curano assieme ai veterinari.
Vedere quelle piccole tigri diffidenti e spaventate abbassare le difese e accettare gradualmente l’amicizia umana, innesca un meccanismo che fa riflettere i condannati sulla loro vita, toccando con mano il cambiamento che l’amore riesce a produrre.
Non è difficile intuire che molti si riconoscono in quell'aspetto minaccioso che fa tirare fuori artigli e soffiare con fare intimidatorio. Ecco che la prigione viene vista non solo come privazione della libertà, ma anche come opportunità di crescita per bipedi e quattrozampe.
Il progetto, che a Pendleton si chiama FORWARD, ha attivato tantissime richieste di adesione tra i prigionieri, favorendo socializzazione, lavoro di squadra e condivisione delle responsabilità.
Anche in Italia i gatti sono entrati negli istituti di pena:
è accaduto a Torino, alle Vallette, grazie all’iniziativa dell’ENPA che ne ha portati ben trecento.
È sorprendente ma, a fronte dei problemi di sovraffollamento in cui versano le carceri italiane e che rende difficile la realizzazione dei progetti, le esperienze con felini, cani e cavalli dimostrano come l’ausilio della pet-therapy sia estremamente efficace per costruire un percorso rieducativo dei detenuti che produca un reale cambiamento.
Parlare di pet-therapy come di una terapia svolta dai pelosi è riduttivo, perché non si tratta soltanto dello stimolo creato dall'animale, ma di un reciproco scambio di energia che porta a occuparsi l'uno dell'altro:
i randagi ottengono amore e attenzioni mentre gli umani recepiscono il beneficio che regala prendersi cura responsabilmente degli altri, comprendendo che possono applicarlo anche alle persone e, soprattutto, a sé stessi.
Foto da thedodo.com