Musica dal vivo e borghesia
Qualche giorno fa mi è capitato di leggere un articolo su un magazine on line, di cui non faccio il nome, dove si denunciava la proposta definita “ indecente “ dei gestori di un pub nel riminese (uno dei tanti in quella zona) che invitava le band a suonare lì da loro, pagando però la somma di € 100 per “comprarsi” il diritto ad esibirsi. Gli autori di questa a dir poco bizzarra iniziativa giustificavano l’esborso della somma come una “ spesa promozionale” a vantaggio delle band, che in quel modo avrebbero potuto accedere al numeroso, a sentir loro, pubblico che frequenta abitualmente il pub in questione.
Ed il mondo delle band, amatoriali e non, si è rivoltato, tutto stretto attorno alla bandiera del sopruso.
Certo l’idea, soprattutto sotto forma di marketing, sembra davvero infelice. Mi viene da pensare che se un pub si “attacca” ai 100€ di una band, vuol dire che ha sinceramente poco da offrire e, di solito, questi “ colpi di genio” sono seri campanelli di allarme per i gestori.
Ma la cosa che più mi ha fatto sorridere sono state le reazioni dei musicisti e delle band che si sono sentiti offesi ed oltraggiati.
L’articolo in particolare, che ho avuto il “piacere” di leggere, dava addirittura delle soluzioni ai componenti dei gruppi musicali per tentare di uscire da una crisi ormai endemica della scena live in Italia: “organizziamoci per andare a sostenere solo i gruppi che fanno musica originale, quindi boicottiamo le cover band, evitiamo ( sia chi suona, sia chi ascolta) i locali che non danno serie garanzie ai gruppi per un live decente, sosteniamo le idee musicali originali dei gruppi italiani, cercando di preferirli a quelli stranieri…”
Così ho fatto un salto indietro di 20 anni, quando più o meno si dicevano le stesse cose, anche se la scena del live era molto più ricca, viva e prolifica.
Proprio in quegli anni ero proprietario di uno studio di registrazione, con annesse sale prova, dove giornalmente si esibivano tantissimi gruppi della scena musicale romana, i più ovviamente sconosciuti, ma anche qualche nome noto e, tra l’altro, alcuni di questi prodotti dal sottoscritto.
E proprio in quel periodo ho imparato a conoscere questo mondo, le sue leggi e soprattutto il potenziale delle band nostrane.
I proprietari di locali, pub, discoteche, teatri, ristoranti, bar, così come i promotori di feste di piazza in estate, dove esistono stage, palchi o palchetti adibiti ad ospitare concerti, al 90% non conoscono niente del live, e molto spesso non hanno neanche una preparazione di base sulla musica in generale. Poi su luci, audio, e strumentazione tecnica, neanche a parlarne. (Mi ricordo di aver speso qualche lunga telefonata per cercare di capire se il proprietario di un club mi stava parlando di aste microfoniche o di leggii).
Con loro l’unico linguaggio è quello della moneta, del cachet, delle bevande incluse o no e degli ospiti con entrata gratuita. Quindi aspettarsi da un gestore comprensione artistica o tecnica è come chiedere ad un politico di lasciarti parlare.
Già all’epoca i locali chiedevano la garanzia di un numero di spettatori al seguito del gruppo per garantire il cachet della serata. Pertanto spesso tutto si riduceva di fatto a riunioni familiari con zie, fratelli, nonne e cugine e amici di chi suonava, tutti seduti in sala, di solito anche un po’ annoiati, ma comunque presenti ( si sa, mamma alla fine ti perdona sempre), o a feste di laurea, dove sul palco ci sono gli amichetti di facoltà che si esibiscono come ad un saggio di fine anno.
Erano gli anni dell’inizio del declino e della fine di un momento storico della musica live.
Le ragioni sono moltissime, ma assolutamente non tutte imputabili a chi crea e fornisce gli spazi per suonare musica dal vivo.
Partendo dal presupposto che un’esibizione ha bisogno di un pubblico, oggi c’è da dire che il numero di cantanti e musicisti spesso supera quello di coloro che li vogliono ascoltare.
Tutti hanno voglia di esibirsi, interpretato come un diritto, così come quello di avere un pubblico attento ed emozionalmente coinvolto, dimenticando purtroppo che il pubblico lo si crea, lo si costruisce col tempo e con il prodotto che si offre.
Nel nostro Paese il numero di musicisti e cantanti interpreti o autori di vari generi musicali è salito vertiginosamente, così come la loro qualità tecnica. Lo stesso però non si può dire del livello di originalità e composizione artistica, né tantomeno della qualità dello show proposto.
I gruppi che suonano rock, jazz, R&B, soul, country sembrano fermi ad una fantasia che nulla ha di originale ed innovativo. La sensazione è che questa nuova “ classe media” di artisti della musica, il più delle volte con altre professioni che gli permettono di vivere, interpretino il ruolo del musicista più come un hobby, un dopolavoro, un momento di svago allo scorrere monotono del loro quotidiano.
Mi è capitato troppo spesso di assistere ad esibizioni di band formate da impiegati, studenti, casalinghe disperate o commessi, che la sera, riuniti all’interno di un locale, su un palchetto rimediato, dessero vita ad esibizioni di dubbio livello, simili ad un odioso karaoke, noiose e senza nessun appeal. E che magari, alla fine della loro esibizione, si lamentassero pure di un pubblico poco partecipe, o che il gestore non li richiamasse per le serate successive.
La loro performance assomigliava un po’ ai selfie di quelle donne o uomini di una certa età, che non riuscendo a rassegnarsi ad attaccare le mutande al chiodo, si ritraggono con abiti ed espressioni da riso isterico.
Il punto è che suonare difronte ad un pubblico pagante non è né un passatempo, né un impegno, né un divertimento, né ancor meno un lavoro o una professione, a meno che non si faccia parte dell’ organico di un’orchestra o orchestrina che sia.
Né il fatto di avere un po’ di talento significa automaticamente meritare un pubblico.
L’esibizione, lo show, il live in generale appartengono ad un modo di essere che nasce più che altro da un bisogno fisico e mentale, che impedisce al malcapitato che ne è vittima di fare qualsiasi altra cosa, molto spesso arrecando anche danni seri alla sua esistenza. Soprattutto se quella malattia non ha in sé il seme della genialità. Perché oltre a “doversi” esibire per avere successo bisogna anche esser dotati di un bagaglio di genio unico ed irripetibile, tale da risultare seducenti ed attraenti al punto di “ rapire” l’attenzione e lo spirito di un’audience che improvvisamente, alle prime note della tua esibizione, diventa un corpo solo, un’unica entità che vibra sulle note emotive dello show. Magia, fantasia, talento, originalità, attrazione, carattere, sex appeal e soprattutto ARTE!
Richard Brenson, il fondatore della Virgin Music, uno dei più grandi talent scout della scena musicale britannica degli anni ‘80/90 diceva che ogni artista, prima di provare a proporre la sua musica, dovrebbe chiedersi se il suo prodotto riuscirebbe mai ad indurre una persona qualsiasi ad uscire di casa, prendere la Metro, magari in un giorno di pioggia, attraversare la città, fare la fila di un’ora difronte ad una sala concerti e spendere 50£ per assistere ad una sua esibizione o a comprare un suo album.
Se ognuno di questi “ talenti” si ponesse seriamente questa domanda, oltre a fare un grande favore a quel pubblico che spesso è costretto annoiato ad ascoltarli e che di solito solo per pura educazione non li invita a smettere, lo farebbe di sicuro a se stesso, perché, nella maggior parte dei casi, impiegherebbe sicuramente meglio il tempo in un’altra occupazione, oltre che ai gestori di locali che non sarebbero così costretti a star dietro a tutti quegli “esibizionisti” che li assillano con mille pretese per far si che il mondo non rischi di perdere “ l’evento di musica immortale” che ogni sera gli propongono.
In più ci sarebbe molta meno brodaglia in giro e sicuramente più qualità, meno Talent televisivi, meno problemi per coloro che hanno realmente qualcosa di valido da proporre nei loro spettacoli e meno noia mortale condita con scene solitamente imbarazzanti.
Se proprio ci si vuole esibire, perché non se ne può fare a meno, come diceva Gaber: “ c’è solo la strada su cui puoi contare, la strada è l’unica salvezza, il bisogno di uscire per esporsi nella strada e nella piazza”. Lì il pubblico può scegliere se fermarsi ad ascoltarti gratuitamente, apprezzare, applaudire o invece fuggire via o invitarti a smettere.
La strada è il posto migliore per misurare le proprie capacità, la strada non mente col suo cinismo, la sua serietà e l’ inesorabile coerenza. Una scuola dura, ma di enorme beneficio anche per acquisire un’ etica professionale. Lì si può capire se si è capaci di “ AVERE” e “ MERITARE” un pubblico. D’altronde quasi tutti i grandi hanno cominciato così.
Una gavetta che sfoltisce tante inutili perdite di tempo. La strada rivela se sei in grado di incantare la folla o annoiarla, di sedurla o disgustarla, di CONQUISTARLA o solo semplicemente incuriosirla. Il pubblico che seduci con la tua ARTE in strada si ricorda spesso di te ed il più delle volte ti premia con la fedeltà. Se riesci ad emozionare una piazza ed a fare numero, il passo successivo viene da sé.
Nell’Arte non esiste classe media o borghesia, c’è spazio solo per l’eccellenza.
E poi il mondo non ha bisogno di tantissime esibizioni, solo di quelle buone…