Buono da mangiare

La prospettiva di mangiare gli insetti è approdata anche in Europa. Galeotta, per l’Italia, fu l’Expo di Milano.

Vale allora la pena di rileggere il saggio dell’antropologo Marvin Harris: Buono da mangiare.

Enigmi del gusto e consuetudini alimentari (Torino 2015, Einaudi. Originale: Good to Eat. Riddles of Food and Culture, New York 1985, Simon & Schuster. Traduzione italiana di Piero Arlorio).

 

              Le ricerche dell’autore si addentrano nel campo di gusti e disgusti alimentari, dimostrando che essi non dipendono solo dalla fisiologia dell’apparato digerente, ma anche da condizionamenti culturali profondi: tabù e tradizioni, insomma. L’impronta di questi ultimi è tale da pareggiare la forza degli impulsi fisici, nella ricerca (o nel rifiuto) degli alimenti.

In poche parole, per dirla con Harris: il cibo è “Buono da pensare o buono da mangiare?”

              Nella risposta, l’antropologo procede per quadri distinti. Il primo è quella “Fame di carne” (pp. 9-38) tanto esecrata da vegetariani e vegani, quanto onnipresente nell’umanità.

Anche nelle popolazioni degli USA e dell’Unione Sovietica (quando esisteva), non certo sottoalimentate. La spiegazione ritrovata da Harris è squisitamente biologica: i cibi di origine animale sono la migliore fonte di proteine disponibile (cfr. p. 22). Ecco, dunque, che tradizioni e fisiologia sembrerebbero sposarsi alla perfezione. Ma il resto del saggio pone complicazioni.

Infatti, è d’obbligo spiegare “Il mistero della vacca sacra” (pp. 39-59). Un contadino indiano non manderebbe mai al macello la propria mucca, benché ottima come fonte di carne.

Harris elenca dunque i benefici impagabili di questo animale nelle campagne: fornitura di latticini, forza motrice per l’aratro (meno costosa di un trattore, in una piccola proprietà), ripulitura dei terreni dai rifiuti vegetali. Dai loro escrementi, si ricavano fertilizzanti e combustibili. Insomma, la vacca è la sostentatrice di una moltitudine di piccoli contadini, le cui esigenze si contrappongono a quelle del mercato internazionale della carne (cfr. p. 51).

La rinuncia al consumo di manzo fu una conquista per i più poveri anche nell’antichità, quando esso era ormai privilegio delle caste sacerdotali che amministravano i sacrifici (600 a.C. circa). La sacralizzazione della vacca fu l’esito della lotta fra Induismo e Buddhismo: per impedire che quest’ultimo conquistasse le coscienze degli indiani, i Brahmani dovettero far propria l’istanza buddhista della non-violenza e farsi protettori (anziché macellatori) dei bovini (cfr. pp. 47-48). Oggi come ieri, in India, «la vacca rende possibile un’agricoltura che garantisce la vita umana» (p. 59).

              Un destino assai diverso sembra segnare “L’abominevole porco” (pp. 60-81). Esso – come tutti sanno – è immondo per due fra le religioni più diffuse al mondo, Ebraismo e Islam. Per quanto riguarda la prima, il libro biblico del Levitico afferma: «Degli animali mangerete tutti quelli che hanno lo zoccolo fesso e ruminano» (XI, 3; cit. a p. 64). Ovvero, quelli che danno carne e latte senza sottrarre derrate all’alimentazione umana.

Il maiale, invece, avrebbe “rubato” buona parte del raccolto, oltre a non saper sopportare siccità e calura (cfr. p. 66). Al pari degli Israeliti, bandivano il maiale i Fenici, gli Egizi e i Babilonesi (cfr. p. 76). Ma il massimo del tabù è stato raggiunto dall’Islam.

Esso si fondava sulle condizioni ambientali di cui abbiamo già parlato e poté contare proprio sul sostegno di quelle popolazioni che vivevano in climi aridi. Questo limite geografico delimita tuttora il mondo musulmano.

Il rapporto religione-ambiente, naturalmente, non è del tutto univoco. Lungo le coste dell’Europa meridionale, per esempio, le aree a maggioranza cristiana si distinguono per la presenza di boschi (habitat del maiale), mentre gli agricoltori musulmani permettono o incoraggiano la deforestazione (cfr. p. 80).

              L’unico tabù alimentare cristiano è trattato nel capitolo “Ippofagia” (pp. 82-104).

Nel 732, papa Gregorio III inviò una lettera a Bonifacio, suo missionario presso i Germani, ordinandogli di por fine al consumo di carne equina (cfr. p. 90). Quell’anno era lo stesso della battaglia di Tours, in cui si affrontarono i Franchi, guidati da Carlo Martello, e le milizie musulmane provenienti dalla Spagna.

Il cavallo era proprio l’arma-chiave del conflitto. Difenderlo – non solo in quell’occasione – significava preservare la cristianità. Né questo tabù è del tutto spento. L’autrice tedesca Christa Wolf ne parla nella sua Medea (1996), attribuendolo agli antichi Corinzi. (Un conoscente di colei che scrive, poi, ha perduto l’amicizia di una ragazza tedesca proprio offrendole carne di cavallo. Uomo avvisato…).

Una serie di diffidenze nei confronti delle pietanze equine sono dure a morire anche negli Stati Uniti, secondo Harris, ma per ragioni squisitamente commerciali. Degli interessi economici legati ai diversi tipi di allevamento tratta il capitolo “Santa Bistecca Usa” (pp. 105-127).

              Chiunque abbia dimestichezza con ristoranti cinesi o giapponesi, poi, avrà sicuramente notato l’assenza di latte e derivati. Questa secrezione della mucca è infatti considerata disgustosa dalle popolazioni dell’Estremo Oriente (cfr. p. 128).

I Brasiliani che ricevettero latte in polvere come aiuto economico dagli Stati Uniti, nel secondo dopoguerra, andarono incontro a gonfiore, crampi e diarrea (cfr. pp. 129-130). A partire da situazioni simili, Harris divide i popoli in “Lattofili e lattofobi” (pp. 128-152). In questo caso, la spiegazione sarebbe principalmente genetica: la presenza o meno, nell’organismo, dell’enzima che permette di digerire il lattosio. Si aggiunga che Paesi come la Cina sono poco dipendenti dall’aratura animale e ciò è un disincentivo ad allevare bovini da latte. Viceversa, sono assolutamente lattofili i nomadi dei deserti, che dipendono strettamente dal latte di cammella durante le loro peregrinazioni (cfr. p. 151).

              “Cosucce” (pp. 153-174) tratta poi di quel consumo d’insetti cui abbiamo accennato all’inizio. In area amazzonica, le donne sembrano mangiarne una buona quantità, in compenso del loro scarso accesso alla carne (p. 156). Sempre i Cinesi impararono a mangiare i bachi da seta, dopo averli svolti dal bozzolo (p. 157): un’importante fonte di approvvigionamento per contadini e filatrici. Insettivori sono diversi popoli del Sudest asiatico (p. 158). Mangiare i pidocchi, per i nomadi Kirghizi, era un modo per liberarsene (p. 159). Decisamente più resistenza trova questo genere di abitudine fra Europei e Nordamericani: non hanno bisogno di ricorrervi, né i loro insetti sono tanto nutrienti o proliferanti da diventare cibo. Oltretutto, sono fastidiosi e connessi con la sporcizia.

Tutt’altro discorso va riservato a “Cani, gatti, dingo e altri pet” (pp. 175-200). Il cane (alimento non sdegnato da diverse popolazioni elencate da Harris) è un guardiano, per molte case occidentali. Il piacere di vivere con un animale da compagnia, poi, non necessita di lunghe spiegazioni. «Le società contemporanee sembrano aver risolto molti problemi connessi ai bisogni degli uomini […] hanno però fallito miseramente nell’offrire alla gente una compagnia di una certa qualità e tale da fornire reciproco supporto» (p. 196).

              Il capitolo più sconvolgente, di sicuro, è “Mangiare la gente” (pp. 201-236). Ingerire le ceneri dei defunti è il proseguimento della cremazione, presso alcuni gruppi dell’area amazzonica (pp. 202-203). Presso i Foré della Nuova Guinea, la passata abitudine delle donne al cannibalismo funerario era legata alla distribuzione ineguale dell’alimentazione carnea fra i due sessi (pp. 204 ss.).

Sempre le donne erano protagoniste, nel cannibalismo guerresco dei Tupinamba del XVI secolo, nell’attuale Brasile (pp. 206 ss.): la sorte che spettava ai prigionieri di guerra. Testimonianze oculari di missionari gesuiti riguardano invece  Irochesi e Uroni, nel XVII secolo (pp. 213 ss.).

La pratica del cannibalismo, in questi ultimi casi, è un sottoprodotto della guerra: «una scelta alternativa piuttosto avveduta al lasciare andare a male una fonte di cibo animale affatto buona […] la carne dei prigionieri doveva essere particolarmente apprezzata da chi di norma riceveva solo piccole porzioni […] cioè in particolare le donne…» (p. 216). Così, fra l’altro, le società guerresche educavano la propria gioventù a cancellare la pietà e a temere la sconfitta (pp. 216-217).

Durante le battaglie campali, poi, i corpi dei nemici erano un genere di prima necessità (p. 217), anche per i Maori della Nuova Zelanda (p. 218). Harris, piuttosto disincantato, nega che queste abitudini siano ripugnanti agli Europei in ragione di una loro “superiore civiltà”.

Al contrario, ne fa una questione di rapporto costi-benefici, come in qualunque altro campo alimentare (e cita il famoso saggio di Michel de Montaigne sul cannibalismo, che ricorda la crudeltà europea durante le guerre di religione). «…prima dell’era nucleare non si dettero mai due nemici che fecero rientrare nei loro piani una guerra che avrebbe potuto annientare il mondo intero […] a stare ai dati di Amnesty International, c’è ancora un buon terzo dei paesi del mondo che pratica la tortura…» (p. 221).

In altre parole, gli europei non si mangerebbero fra loro unicamente perché già alimentati a sufficienza e bisognosi di mantenere i propri Stati tramite un gran numero di contribuenti. «L’abbandono del cannibalismo guerresco presenta dei vantaggi addizionali per i reggitori che mirano alla creazione di sistemi imperiali sempre più estesi.

Per esempio essi traggono un notevole vantaggio psicologico se riescono a convincere i nemici che la resa non comporterà né l’uccisione né il consumo alimentare della loro carne. Gli eserciti che si mettono in marcia col pretesto di diffondere una più elevata “civiltà” incontrano in genere minor resistenza di quelli che si muovono all’insegna del “siamo qui per uccidervi e mangiarvi”.

Insomma, la rinuncia al cannibalismo guerresco rientrava nella generale evoluzione dei sistemi etici e morali propri degli Stati imperialistici: evoluzione che finirà per portare alla nascita delle religioni universali che danno il massimo rilievo all’unità del genere umano e alla venerazione di divinità misericordiose che apprezzano l’amore e la bontà» (p. 222).

              L’ultimo capitolo, “Migliore da mangiare” (pp. 237-251), tratta delle strategie ipotizzate per risolvere i problemi di nutrizione presenti nel mondo. Coerentemente con quanto documentato, Harris trae una conclusione che meriterebbe più attenzione da parte dell’occidentale medio: «…l’ottimizzazione non è mai un’ottimizzazione per tutti. Ecco perché non mi sembra sia proprio il momento storico in cui promuovere l’idea che le abitudini alimentari sono ispirate a una simbologia priva di concreto fondamento.

Per poter mangiar meglio dobbiamo saperne di più circa le cause concrete e le conseguenze delle nostre diverse e mutevoli abitudini alimentari.

Dobbiamo saperne di più sul cibo in quanto nutrimento, come dobbiamo saperne di più sul cibo in quanto profitto. E solo in seguito saremo veramente in grado di saperne di più sul cibo in quanto pensiero» (p. 251).

 

(Fonti: corriere.it/cronache/15_ottobre, immagine da wikimedia.org)