L’ipocrisia del politically correct.
Manie del trasformismo linguistico e dell'ossessivo politically correct.
Nell'articolo precedente ci si era soffermati sugli inganni che l'uso un po' “disinvolto” per non dire distorto di una lingua e dei suoi relativi significati può essere fatto.
In questo articolo, invece, vogliamo fare alcuni esempi di come il linguaggio, in questo caso, la lingua e concetti italiani, si siano modificati negli ultimi anni, spesso per motivi di ipocrisia e di un uso del politically correct che è ormai diventato nauseabondo e dominante nella nostra società.
Facciamo qualche esempio:
la parola pompiere, è stata sostituita dalla definizione di vigile del fuoco (cosa poi si debba “vigilare” se scoppia un incendio è cosa ardua da comprendere);
il caro bidello, al quale noi da ragazzini ci siamo affezionati e che non era per nulla offeso dall'essere chiamato così, ora è diventato “collaboratore scolastico”...
Il vigile urbano è diventato invece, prima agente di polizia municipale, e, proprio di recente, agente di polizia locale.
Potremmo andare ancora avanti, con la ormai nota e antica trasformazione da spazzino a “operatore ecologico” (come se poi ci fosse qualcosa di male nel chiamare qualcuno che spazza le strade come, appunto, spazzino)...
I modi sono più importanti dei termini!
E, tanto per rimarcare maggiormente l'ipocrisia di queste “trasformazioni”, possiamo fare gli esempi di parole che non sono state pressoché “soppresse” o legislativamente trasformate, ma che sono molto sconvenienti da usare nell'opinione pubblica: negro (persona di colore) e nero: la prima definizione risulta essere dispregiativa e quindi offensiva, la seconda, invece, è quella usata dal politically correct: è fin troppo evidente che l'uso di un termine o l'altro è assolutamente non importante: se si vuole essere offensivi o addirittura razzisti, non è una semplice consonante a poter cambiare il concetto: saranno molte caratteristiche e modi di porsi ad essere rilevanti in tal senso: il tono della voce, il contesto, lo sguardo, e il comportamento.
Potremmo continuare, sulla stessa scia, nel considerare la parola clandestino come dispregiativa e da non usare: si preferisce usare il semplice termine immigrato (generico) o profugo, che però solo in alcune circostanze ha diritto giuridico ad essere chiamato tale. Anche qui la differenza sta nel come usiamo i termini e in che contesto li usiamo. Un clandestino, di per sé, è solo un individuo che non dispone di documenti e che non è regolare nel momento in cui attraversa i confini di un Paese. Di per sé non ci sarebbe nulla di “gratuitamente” dispregiativo nel termine.
È l'uso che se ne fa che porta molti ad avere soggezione ed esitazione nel pronunciare questa parola: ma la lingua non può essere stravolta dall'uso razzista o xenofobo che viene fatto da alcuni piuttosto che da altri che si appropriano di termini “normali” per usarli in modo discriminatorio.
La cosa importante è il contesto e, ribadiamo, il modo in cui i termini vengono usati. Potremmo continuare all'infinito. Ma per ora ci fermiamo, segnalando però, un articolo molto interessante di alcuni anni fa del notissimo semiologo (prematuramente scomparso) Omar Calabrese che affronta in modo mirabile ed approfondito la questione, oramai sempre più presente nella società di oggi.