Proudhon, un borghese piccolo (ma non troppo).

“Piccolo borghese”. Così Karl Marx, in Miseria della filosofia (1846-1847), definì Pierre-Joseph Proudhon (Besançon, 1809 - Parigi, 1865).

L’espressione è rimasta tutt’oggi, a titolo d’insulto.

Come se appartenere alla piccola borghesia non fosse un’esperienza come un’altra, un ruolo nella società e un’angolazione dalla quale leggere il mondo.

   Proudhon era figlio di un vignaiolo-bottaio e di una “donna superiore dal carattere eroico” - secondo Sainte-Beuve e Weiss, il bibliotecario di Besançon.

Lavorò in campagna, prima di entrare nel collegio reale di Besançon, grazie a una borsa di studio (1820).

Nel 1826, la sua famiglia andò in rovina a causa di un processo e lui dovette abbandonare gli studi.

Divenne apprendista tipografo presso la stamperia di Bellevaux, poi correttore di bozze alla tipografia Gauthier.

Il contatto diretto con un gran numero di volumi (perlopiù teologia, patristica e filosofia) gli guadagnò una cultura vasta ed eclettica.

Essa lo porterà a due risultati: l’ottenimento della pensione Suard (borsa di studio presso l’Accademia di Besançon) e la stesura di opere filosofiche tanto contestate quanto indimenticate.

Di scandaloso, c’era soprattutto l’affermazione iniziale: “Cos’è la proprietà? […] È un furto” (p. 57).

Parole che sembrarono eccessive allo stesso Blanqui.Proprio all’Accademia è dedicata Qu’est-ce que la propriété? ou Recherches sur le principe du droit et du gouvernement (1840).

L’opera fu talmente graffiante che l’Accademia la sconfessò e Proudhon scampò al perseguimento giudiziario solo grazie all’apprezzamento dell’economista Adolphe Blanqui.

(L’edizione che ne citeremo in questo articolo è quella uscita per i tipi di Garnier-Flammarion, Paris 1966; cronologia e introduzione di Émile James. Le citazioni qui presenti sono state tradotte dalla sottoscritta).

Lo stesso Proudhon, secondo James (p. 30), ebbe a dire che la proprietà era la salvaguardia della libertà individuale e della famiglia.

Cosa intendeva, dunque?

Ciò che egli chiama “proprietà” è “il diritto di lucro che il proprietario si attribuisce su una cosa da lui marcata col proprio sigillo” (p. 191).

Proudhon, dunque, non si riferisce al godimento di un bene necessario al sostentamento o guadagnato col proprio lavoro.

Il suo attacco è diretto contro una situazione tipica del capitalismo:

il trarre profitto da un mezzo di lavoro o da un alloggio che si possiede nominalmente, ma che non varrebbe alcunché, senza il contributo di operai o inquilini.

Situazione che era generalmente giustificata o considerata inevitabile, alla sua epoca.

Il filosofo smonta dunque le argomentazioni con cui altri pensatori o “uomini della strada” sostenevano il “diritto” di proprietà.

Non è “un diritto naturale”, perché è necessario provarne l’origine e la legittimità.

Non deriva dall’occupazione, dall’aver occupato uno spazio per primi, perché  detta occupazione consente solo il possesso (il godimento effettivo di un posto), non il titolo di proprietario.

Nessuno ha diritto se non a ciò che gli è sufficiente, secondo Cicerone: questa è l’interpretazione fedele del suo famoso assioma, suum quidque cujusque sit, a ciascuno ciò che gli appartiene, assioma che è stato così stranamente applicato.

[…] Cos’abbiamo il diritto di possedere? ciò che basta al nostro lavoro e alla nostra consumazione; il paragone che Cicerone fa della terra con un teatro lo prova. Secondo questo, che ciascuno si sistemi nel proprio posto a suo piacimento, che lo abbellisca e lo migliori, se può, gli è consentito: ma che la sua attività non sorpassi mai il limite che lo separa dagli altri.” (pp. 96-97).

Proudhon prosegue comparando autori antichi e moderni, da Cicerone a Grozio a Reid, e li trova concordi nell’affermare che la condizione originaria dell’uomo secondo natura è l’eguaglianza:

la terra è un teatro in cui ciascuno, alla propria comparsa, ha potuto occupare un posto, senza domandare autorizzazioni o esserne spossessato.

“Se il diritto di vivere è eguale, il diritto di lavorare è eguale, e anche il diritto di occupare è eguale. Degli isolani potrebbero, senza crimine, sotto pretesto di proprietà, scacciare con arpioni degli infelici naufraghi che tentassero di approdare sulla loro costa?

La sola idea di una barbarie simile disgusta l’immaginazione. Il proprietario, come un Robinson sulla sua isola, allontana a colpi di picca e fucile il proletario che l’onda della civiltà sommerge, e che cerca di aggrapparsi agli scogli della proprietà.” (p. 99).

Quest’ultima non è nemmeno frutto del lavoro, perché la situazione osservata da Proudhon è quella di una netta separazione fra esso e la proprietà dei mezzi di produzione.

Agli operai non è riconosciuto il diritto di proprietà sull’azienda, ma soltanto “un salario che lo faccia vivere mentre lavora” (p. 155).

Per di più, considera l’autore,

“questa forza immensa che risulta dall’unione dell’armonia dei lavoratori, dalla convergenza e dalla simultaneità dei loro sforzi, egli [il capitalista] non l’ha pagata.

Duecento granatieri hanno in poche ore innalzato l’obelisco di Luxor; pensate che un solo uomo, in duecento giorni, ne sarebbe venuto a capo? Purtuttavia, nel calcolo del capitalista, la somma dei salari sarebbe stata la stessa” (p. 155).

Tutto questo senza contare il grottesco sfiorato dalle questioni legate alla proprietà terriera.

Autori di economia politica come Say - citato da Proudhon - riconoscono le terre coltivabili come “ricchezze naturali” (p. 131), perché non sono creazione umana.

Eppure, la loro immobilità ha consentito di suddividerle e recintarle materialmente, facendone un bene privato di cui pagare l’uso.

Beni più fuggitivi come l’aria e l’acqua, però, sono stati ugualmente oggetto di appropriazione - nota l’autore (p. 132).

Le questioni relative ai confini delle proprietà investono infatti tutto quanto sta sopra e sotto l’area definita - ergo, tutte le risorse necessarie all’uomo anche solo per la sua sopravvivenza.

Proudhon e la proprietà capitalistica

Proudhon conclude che la proprietà capitalistica non solo è illegittima sul piano filosofico, ma anche impossibile,

a causa delle sue interne contraddizioni: disparità fra costi di produzione e valore effettivo del prodotto; disintegrazione dei legami sociali; scollegamento dai bisogni materiali effettivi; pretesa di accumulo infinito di risorse finite; annullamento dell’eguaglianza invocata dai difensori stessi della proprietà.

L’esperienza della tipografia non manca d’incidere sulle riflessioni del filosofo:

“In una stamperia, dove i lavoratori sono solitamente dediti a una particolare operazione, l’operaio compositore riceve un tanto per mille caratteri composti, il pressatore un tanto per mille fogli stampati.

Là, come ovunque, si ritrovano diseguaglianze di talento e abilità.

Quando non si teme la calence, ovvero la scioperaggine, quando la tiratura e i caratteri non mancano, ciascuno è libero di abbandonarsi al proprio ardore, e d’impiegare la potenza delle sue facoltà: allora chi più fa più guadagna, chi meno fa meno guadagna.

Se il lavoro comincia a scarseggiare, compositori e pressatori si dividono la fatica; ogni accaparratore è detestato al pari d’un ladro e d’un traditore.

C’è, in questo comportamento degli stampatori, una filosofia a cui né economisti né uomini di legge s’eleveranno mai” (p. 163).

L’esempio spiega anche il significato di quell’inizio lapidario che fece scandalo nel 1840.

Del resto, l’autore individua molti modi (diffusi) di rubare:

il brigantaggio e la sottrazione, ma anche la bancarotta fraudolenta, la falsificazione, la truffa, lo scrocco, l’abuso di fiducia, il barare al gioco, l’usura, la costituzione di rendite/affitti, la speculazione sui guadagni, la sinecura.

Poiché il “diritto” di proprietà è quello su cui si fondano le strutture sociali, Proudhon si trova ora a specificare quale sia la sua nozione di società alternativa a quella reale.

L’istinto dell’uomo di associarsi coi propri simili sarebbe lo stesso che guida ogni specie animale; la differenza starebbe nel grado d’intelligenza, ovvero nella maggiore coscienza dei propri doveri sociali da parte degli esseri umani.

In questi ultimi, c’è anche un secondo grado di socievolezza:

la giustizia, ovvero “il riconoscimento in altri di una personalità eguale alla nostra” (p. 262).

Essa permette agli uomini di condividere i propri beni non solo con chi li ha prodotti, ma in forza di quel legame magnetico e primitivo che li rende associati.

Il terzo grado di socievolezza individuato da Proudhon è quello dato dalla stima o riconoscenza, la capacità di valutare meriti e colpe.

L’errore di creare la proprietà - contro la naturale condizione umana - verrebbe proprio dall’esercitare male gli ultimi due gradi di socievolezza, dall’approssimazione nell’esercitare giustizia e retribuzione.

Così come rifiuta la proprietà capitalistica, Proudhon rifiuta la comunanza dei beni, per quel suo carattere assoluto che renderebbe la comunità proprietaria essa stessa, non solo delle risorse, ma anche delle persone e delle volontà.

Proudhon e l'anarchia

Il suo regime ideale è l’anarchia, intesa come prevalenza delle leggi della necessità, della ragione e della scienza su tutte le altre.

Anarchia, assenza di padrone, di sovrano, questa è la forma di governo alla quale ci avviciniamo ogni giorno, e che l’abitudine inveterata di prendere l’uomo per regola e la sua volontà per legge ci fa vedere come il colmo del disordine e l’espressione del caos.

Si racconta che un borghese di Parigi del XVII secolo, avendo sentito dire che a Venezia non c’era un re, quel buon uomo non poté riaversi dal suo stupore, e credette di morir dal ridere alla prima notizia di una cosa tanto ridicola. Tale è il nostro pregiudizio…” (p. 300).

In base a questa concezione, Proudhon propone una forma di società che chiama libertà:

quella basata sull’eguaglianza dei mezzi di sostentamento, sulla legge di necessità ricavata dalla “scienza dei fatti” (p. 303), sull’indipendenza rispettiva degli individui in base a talenti e capacità, sul confinamento della proporzionalità solo al campo dei sentimenti personali (non quello dei beni materiali).

 Il tutto è invocato in nome di un Dio che non è quello della Chiesa terrena (da Proudhon aspramente contestata), ma il creatore della natura e dell’eguaglianza primigenia fra gli uomini.


La pars construens dell’opera è poco estesa e per questo il filosofo ha trovato molti detrattori.

Ma ciò non toglie la sua capacità di spaziare attraverso gli autori e le epoche, dando una sorta di universalità alle sue considerazioni.

Sì, senza dubbio, ma di borghese in rivolta.

Come non vedere che le riforme sociali dei Paesi d’Occidente sono da cinquant’anni orientate in quel senso?

Proudhon ha lasciato più germi ideologici, resta ben più «attuale» di quanto Karl Marx avesse previsto” (Émile James, nell’introduzione).“Speranze di «piccolo borghese»?

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