C'è stato un tempo in cui...

 

Molti di voi non ci crederanno, ma è vero: c’è stato un tempo in cui si poteva andare al cinema e godersi un film, comodamente seduti in poltrona, magari bevendo una bibita e fumando una sigaretta. E potevi fumare dappertutto, liberamente.

 

Al ristorante, per fare un esempio, potevi gustarti in santa pace la tua sigaretta a fine pasto o tra una portata e l’altra. Poi, a partire dal sessantotto o poco dopo, le cose sono cambiate e molte cose che allora erano piacevoli, semplici o consentite, adesso non lo sono più.

Era l’epoca in cui non esisteva il “privato” perché il privato doveva essere pubblico. Era l’epoca delle comuni, della condivisione, del “messaggio” e dell’impegno”. Tutti dovevano essere “impegnati” e in qualsiasi forma di espressione doveva esserci il “messaggio” e così via.

Nel bene o nel male, come per tutte le cose, ci sono state, e abbiamo ereditato, cose buone e cose meno buone. Non m’interessa (e non ne avrei i mezzi) fare politica o sociologia. A me interessano i libri, la scrittura e la letteratura, in generale (quella con la elle maiuscola, ma anche quella con la elle minuscola).

Seguivo, nei giorni scorsi, in un gruppo di scrittori su facebook, un piccolo scontro, provocato da uno sciagurato scrittore che si era permesso di descrivere una scena di sesso, senza fare alcun accenno all’uso del preservativo. Apriti cielo! A un certo punto, una delle interlocutrici attacca il solito pippone sull’impegno, sul messaggio, sul compito educativo (sì, avete letto bene: educativo!) dello scrittore e tutto il perepè perepè che ne segue. E mentre ormai il dibattito si trascinava stancamente, mi è venuto in mente Bukowsky. Se quella scrittrice, invece che scrittrice fosse stata un editore, al quale Bukowsky avesse sottoposto il suo manoscritto, oggi del caro Charles ignoreremmo perfino l’esistenza. Per fortuna, anche tra gli editori c’è gente illuminata.

Nella serie delle cose buone o meno buone, che da allora sono intervenute, metterei sicuramente, per le cose buone, Internet e il web. Sempre restando nell’ambito della letteratura e dei libri, internet ha dato a migliaia di scrittori, bravi o meno bravi, la possibilità di farsi conoscere.

Prima dell’avvento di internet, lo scrittore che sottoponeva a varie case editrici il suo manoscritto, che veniva rifiutato, non aveva più nessuna speranza. Nemmeno la possibilità di farsi leggere e confrontarsi con il lettore, meditare sulle critiche, sui giudizi e così via. Il massimo della gratificazione era far leggere il proprio scritto ad amici e parenti. Oggi, grazie al web, tutti hanno una possibilità.

Su Amazon, che è una multinazionale tra le più grandi al mondo per le vendite online, è possibile comprare libri e e-book e lasciare anche una “recensione cliente”. E qualunque scrittore può pubblicare e mettere in vendita, in pochi click, il suo libro o il suo e-book. Bello, vero? È una cosa buona. Ma, per restare all’argomento: qual è la cosa meno buona? Probabilmente Amazon ha scelto male il termine.

Invece di “recensione” avrebbe dovuto usare “giudizio”.

Non è una questione di lana caprina, è un punto fondamentale. Riporto dal dizionario le due definizioni:

Recensione: presentazione critica, in forma di articolo, di un’opera letteraria o scientifica pubblicata di recente;

Giudizio: ogni affermazione che, superando la semplice constatazione di fatto, esprime un’opinione, un apprezzamento.

La differenza tra i due termini è sostanziale. Anche la mia cara amica, la casalinga di Voghera, così come facciamo tutti, tutti i giorni, esprime giudizi ed è capace di farlo. Ma non tutti sono capaci di scrivere una recensione, nei termini della definizione.

Inutile aggiungere che la critica (la critica letteraria) è un’attività ancor più impegnativa. Mi piace sempre ricordare la lettera che Voltaire inviò a Rousseau, che gli aveva spedito una copia del suo ultimo scritto:

"Ho ricevuto il vostro nuovo libro contro la razza umana, e ve ne ringrazio. Non fu mai impiegata tanta intelligenza allo scopo di definirci tutti stupidi. Vien voglia, leggendo il vostro libro, di camminare a quattro zampe. Ma avendo perduto questa abitudine da più di sessant'anni, sento purtroppo l'impossibilità di riprenderla. Né posso mettermi alla ricerca dei selvaggi del Canada, perché le malattie a cui sono condannato rendono necessario per me un medico europeo, perché in quelle ragioni c'è la guerra, perché il nostro esempio ha reso quei selvaggi cattivi quasi quanto noi".

Bello vero? Niente a che vedere con commenti, anzi no, recensioni, del tipo:

“Soldi buttati” “Brutto” “Noioso” “Prolisso” e simili. Nonostante il giudizio negativo, Voltaire riconosce a Rousseau l’intelligenza, la capacità, eccetera. E questo mi porta ad un’altra questione: il contenitore e il contenuto. Mi chiedo spesso se, e fino a che punto, il tema trattato debba o se dovrebbe, influire sul giudizio. Per tornare al vecchio Charles: cosa potrebbe scrivere un recensore Amazon su un libro, tanto per dirne uno, come “Compagno di sbronze”? Se fosse un moralista, un cattolico della domenica o uno impegnato, il peggio possibile. Ma tutto questo è giusto e, principalmente, serve allo scrittore? La mia risposta è: no.

Provate a immaginare se Dante Alighieri e la Divina Commedia fossero sconosciuti. E immaginate dei recensori come quelli appena descritti. Quale potrebbe essere la recensione? Una cosa di questo tipo, più o meno:

“Un’opera disgustosa, popolata da uomini nudi, che servono al poeta unicamente per dare libero sfogo a tutte le sue perversioni” Che ne dite, ci sta? Il problema è che raramente chi esprime un giudizio su un’opera letteraria, riesce a prescindere dai suoi gusti. Capita ai migliori critici, capita anche al recensore anonimo di Amazon. Per fare un esempio: chi decide se e quanto dev’essere lungo un libro? Un giudizio lapidario che ho letto su Amazon è: “Inutilmente prolisso, si poteva raccontare in molto meno delle pagine scritte.” Per quello che mi riguarda, potrei condividere questo giudizio anche per “I promessi sposi”, per dirne una.

Nel 1950 il Nobel per la letteratura fu assegnato a Bertrand Russel, che è stato anche uno dei maggiori filosofi e matematici del novecento. Scrisse molto e su diversi argomenti: scientifici, filosofici, morali e sociali. Sciaguratamente era un agnostico convinto e questo gli alienò le simpatie di tutti gli ambienti religiosi, cattolici e non. Era anche un pacifista convinto e, di conseguenza, amava poco gli Usa e la società americana, che definiva “grossolana e filistea”. È forse per questi motivi che la sua “Storia della filosofia occidentale”, una delle migliori storie della filosofia che siano state scritte, a mio parere, è praticamente sconosciuta nelle nostre scuole.

A questo punto, è del tutto evidente che quando gli Accademici di Stoccolma decisero di conferirgli il Nobel per la letteratura, reputarono che il contenuto non dovesse influenzare il giudizio sul contenitore. Resta il tema dell’impegno, del ruolo “educativo” Uno scrittore deve essere “impegnato”? Deve “educare”? È questo un tema più delicato e complesso, che richiede molte puntualizzazioni e del quale magari tratterò un’altra volta.

E allora, in conclusione, quale dev’essere l’atteggiamento dello scrittore, rispetto alla critica, la recensione o il giudizio?

Verrebbe voglia di pensare, banalmente, una frase di moda oggi: “Stai calmo e tira dritto”. E, sostanzialmente, dev’essere così. A patto che, con umiltà, sappia accettare e far tesoro delle critiche vere e che ritiene giuste. Delle altre, quelle dettate dall’invidia, dall’interesse, o semplicemente dall’ignoranza del recensore, può tranquillamente non tenere conto.