I misteri della sinistra
Non hanno, in realtà, niente di misterioso I misteri della sinistra (Vicenza 2015, Neri Pozza Editore) che fanno l’occhiolino a Eugène Sue. Il saggio è di Jean-Claude Michéa (N. 1950), professore di filosofia in pensione ed esperto del pensiero di George Orwell.
È figlio di Abel Michéa, membro della Resistenza francese durante la Seconda Guerra Mondiale. Si può quindi dire che Jean-Claude abbia seguito le orme del padre, scegliendo la militanza comunista. È però ancora più famoso per le sue critiche alla corrente dominante della sinistra francese, da lui accusata di essere sempre più lontana dalle classi sociali svantaggiate rispetto al grande capitale.
Il suo breve saggio mira a esporre i contenuti di ciò che va, attualmente, sotto l’etichetta di “sinistra”, in Francia (soltanto?): specialmente, di fronte a “l’attaccamento sentimentale che provano i militanti della sinistra per un nome pregno di una storia così gloriosa (e che per di più, in un mondo votato a una continua volubilità e a uno sradicamento generalizzato, è spesso una delle ultime garanzie della loro identità personale)” (p. 8).
La tesi di Michéa, per l’appunto, è che quella storia gloriosa non abbia niente a che vedere con l’etichetta abituale, nata per designare un grosso compromesso originato dall’affaire Dreyfus (1894).
Quando il capitano Alfred Dreyfus fu ingiustamente accusato di alto tradimento, l’opinione pubblica si divise fra i nazionalisti antisemiti (essendo lui l’unico ebreo dello Stato Maggiore) e gli elementi di sinistra, che sostenevano l’innocenza dell’ufficiale. Quest’ultima fu definitivamente provata nel 1906, dopo la vittoria dei radico-socialisti nelle elezioni del 1902.
Come spiega Michéa, è solo in questo quadro, “di fronte alla minaccia imminente di un colpo di Stato della destra monarchica e clericale, che le organizzazioni socialiste rappresentate in Parlamento (tranne, di conseguenza, i sindacalisti rivoluzionari) accetteranno finalmente di negoziare un compromesso detto di «difesa repubblicana» con i loro vecchi avversari della sinistra parlamentare” (p. 18).
La designazione di “vecchi avversari” è dovuta a fatti storici ricordati dall’autore nelle pagine precedenti: le repressioni del movimento operaio francese nel XIX secolo, volute da governi liberali o repubblicani (sia pure col plauso di monarchici e clericali). Michéa non esita a definirle repressioni di classe, dato che la “sinistra” rappresentava la grande borghesia industriale e la piccola borghesia repubblicana e giacobina (cfr. p. 16). “…né Marx né Engels (comunque non più delle altre grandi figure fondatrici del movimento socialista e anarchico) hanno mai pensato una sola volta di definirsi «uomini di sinistra»” (p. 15).
Il compromesso in occasione dell’affaire Dreyfus sarebbe stato “uno dei punti di maggiore accelerazione di quel lungo processo storico che avrebbe pian piano condotto alla dissoluzione della specificità originaria del socialismo operaio e popolare in quello che si sarebbe ormai chiamato il «campo del Progresso»” (p. 18).
Campo cui Michéa attribuisce i connotati di una metafisica religiosa: “…quella metafisica del Progresso e del «Senso della storia» che definiva - dal XVIII secolo - lo zoccolo duro di tutte le concezioni borghesi del mondo” (p. 21).
La penetrazione di questo atteggiamento mentale nel movimento socialista francese, tedesco e russo sul finire del XIX secolo avrebbe prodotto - secondo l’autore - una versione dogmatica e semplificata del marxismo, incapace di concepire altro metodo di produzione all’infuori di quello industriale. “…né l’artigianato, né la piccola imprenditoria, né l’agricoltura contadina avrebbero potuto conservare un posto, per quanto esiguo, in questa società dell’abbondanza” (p. 22).
La fede nella “ruota della storia” che avrebbe dovuto schiacciare le suddette figure sociali portò alla svalutazione dell’amore per la terra e del senso del mestiere - valori incomprensibili anche per l’odierno utilitarismo liberale, sottolinea Michéa (p. 24). Questo tipo di miopia “progressista” indusse artigiani, piccoli commercianti e agricoltori a schierarsi con la destra conservatrice (“evidentemente molto più lucida circa le ambiguità del progresso”, p. 24), o addirittura - a partire dalla crisi economica del 1929 - con fascismo e nazismo.
Un’altra conseguenza che Michéa addebita alla “metafisica del progresso” è proprio l’abbandono delle analisi che Marx aveva sviluppato ne Il Capitale: ovvero, quelle che portavano a definire l’economia capitalista come un illimitato accumulo di merci, slegato dall’effettivo valore d’uso delle medesime. All’accumulo illimitato del capitale, “all’arricchimento senza fine di coloro che sono già ricchi” (p. 26), i media danno oggi il positivo nome di “crescita”.
Il terzo frutto della fede nel “senso della storia” è il rifiuto di idea di male storico e l’invito (rivolto ai popoli) a decostruire ogni traccia del proprio passato: comprese l’etica e la specificità culturale. “Ora, se è evidente che i primi teorici socialisti condividevano con i liberali il medesimo rifiuto rivoluzionario dell’antico mondo delle caste e degli aristocratici guerrieri […] è altrettanto evidente, in compenso, che non intendevano affatto rimettere in questione l’aspetto comunitario stesso” (pp. 29-30). Anzi, spesso sottolineavano la condizione abbrutita del proletariato moderno, dovuta a un “nuovo universo di concorrenza totale” (p. 30) incapace di etica e solidarietà.
Viceversa, Michéa osserva che “nessun liberale autentico […] potrà mai ritrovarsi in un’altra «patria» (se con tale nome ormai demonizzato s’intende ogni primaria struttura di appartenenza che - come la famiglia, il paese di origine o la lingua madre - non può derivare, per definizione, dalla libera scelta degli individui) che non sia quella ormai costituita dal mercato globale senza frontiere” (p. 31). È questo l’ideale del self-made-man, che “non deve niente a nessuno” e che socializza soltanto in termini di scambio calcolato e interesse: ovvero, in termini che non richiedono impegni morali e affettivi.
Tale condizione - come cita Michéa - appariva irreale ad autori come i notissimi Marx e Engels, consapevoli della dimensione sociale connaturata all’uomo. “...la definizione liberale della libertà come proprietà puramente privata inerente all’individuo isolato […] arrivava a sostenere, ai loro [dei fondatori del socialismo] occhi, «una cosa tanto irreale quanto lo sarebbe lo sviluppo della lingua in mancanza di individui che vivano assieme e che comunichino tra loro attraverso il linguaggio» (Marx, Introduzione alla critica dell’economia politica, 1857)” (p. 36).
Il paradosso osservato da Michéa è quello per cui la “libertà assoluta dell’individuo” ha potuto incarnarsi storicamente solo nel mondo contemporaneo, in cui ciascuno dipende quotidianamente dai movimenti del mercato mondiale e dalle pervasive tecnologie digitali. La stessa rivalità fra destra e sinistra, nei Paesi occidentali, si è ridotta a un’alternanza fra tendenze comunque liberali, che applicano a turno “il programma economico definito e imposto dalle grandi istituzioni capitaliste” (p. 41).
La parte più discutibile del saggio è l’acredine riversata sulle istanze gay, il matrimonio egualitario e l’accesso all’adozione. Michéa insiste a voler considerare questa parte della popolazione come “in generale, […] di carattere allegro e libertino” (p. 102), in base a un popolare stereotipo. Il desiderio delle coppie omosessuali di formare un nucleo familiare con tutti i crismi è trattato come una delle tante facce del liberalismo capitalista, che distrugge i valori condivisi in nome dell’affermazione del desiderio personale. È però piuttosto evidente che le battaglie per il matrimonio egualitario e l’accesso all’adozione, laddove vincenti, portano a costituire un vincolo comunitario, non a scioglierlo. La stessa sottolineatura della “famiglia fondata sull’amore” è in contrasto con quel contrattualismo e quell’utilitarismo che Michéa attribuisce ai liberali. A meno di non elevare a “valore morale” la repulsione e l’ipocrisia che vorrebbero gli amori omosessuali rigorosamente invisibili, quando non inesistenti.
Per tutto il resto, però, non si può che condividere l’analisi dell’autore, circa il fatto che il nome di “sinistra” (non solo in Francia) non conservi molto del nobile umanesimo delle origini. Per farlo, dovrebbe occuparsi - come afferma Michéa - di una critica radicale e coerente dell’alienazione prodotta dal capitalismo e saper parlare anche a chi non si occupa di politica per professione. E ciò non potrà avvenire in nome del “successo” e dell’ “affermazione illimitata di sé”.
( foto da mediascitoyens-diois.info, aovestditreviri.files.wordpress.com)