Donne: esseri pensanti.

Qualche giorno fa è stata celebrata la giornata contro la violenza sulle donne: scarpe rosse, balli di gruppo e via dicendo.  Sarà servita a qualcosa? No. Il punto non è questo però: è chiaro a tutti che non è con le giornate celebrative che si risolvono i problemi. Allora come possiamo fare? Questo è il nocciolo della questione.

 

Sono cresciuta in una famiglia dove mi è stato sempre detto qual è il vero significato dell’otto marzo e dove le donne hanno sempre avuto pari diritti, almeno sulla carta. Perché dico questo? Sono fermamente convinta che per far sì che le cose cambino bisogna che l’atteggiamento cambi, per prima cosa, nella quotidianità.

Potrà sembrare banale ma pensateci un attimo: le donne lavorano come gli uomini ormai e, in aggiunta, devono badare alla casa e ai figli (parliamoci chiaro: alcuni padri, dopo il contributo iniziale, dei figli se ne interessano quando sono grandi).

Perché i compiti non vengono divisi? Perché anche quando questo accade ci riteniamo fortunate e quasi ringraziamo i mariti/compagni?

Il problema vero sta alla radice: il nemico delle donne, sono le donne stesse.

Abbiamo la capacità di distruggerci a vicenda avvantaggiando non tanto gli uomini quanto l’idea che il mondo ha delle donne.

Esempi ce ne sono a centinaia: tranne alcune rare eccezioni in televisione le donne o sono vallette che mettono in bella mostra la mercanzia o conducono programmi di cucina o talk show di dubbio gusto. Quanti programmi di approfondimento politico, socio-culturale sono in mano alle donne? Quante direttrici o vice direttrici di telegiornali o di testate giornalistiche ci sono? Penso basti una mano per contarle.

Dicono, da anni, che a parità di mansione le donne guadagnano di meno. Perché? Forse perché possiamo diventare madri e quindi allontanarci per qualche mese dal posto di lavoro? Se sì, perché è stata introdotta la “paternità” e non è stato adeguato anche il loro stipendio?

Perché noi donne abbiamo bisogno delle quote rosa?

Non dovrebbe valere solo il merito? Siamo contente e gioiamo del fatto che gli uomini ci consentano, grazie a questo strumento medievale, di ottenere un minimo di considerazione. Dovremmo essere stufe di essere additate come quelle che sono lì perché c’è una legge che lo impone.

Avete fatto caso alle pubblicità di automobili? Quante donne guidano?

Parliamo anche delle leggi (praticamente) inesistenti che dovrebbero, se non difenderci, per lo meno farci ottenere giustizia quando veniamo perseguitate, picchiate, uccise. C’è sempre un cavillo, una giustificazione, un “se l’è andata a cercare”. Mai, mai una volta c’è stata una condanna definitiva per l’uomo.

Chi permette che ciò accada? Noi donne.

   Potremmo iniziare a cambiare le cose educando i nostri figli maschi a rispettare e amare; educando le nostre figlie a rispettarsi e a pretendere di essere rispettate dicendo loro di non accontentarsi di nulla di meno. L’esempio è fondamentale. Se in famiglia funziona come nel mondo esterno, come possiamo pretendere che i nostri figli imparino qualcosa?

Tempo fa una mamma, mi sembra americana, scrisse all’insegnante di sua figlia di non dire mai più “se ti tira i capelli vuol dire che gli piace” perché non voleva che sua figlia facesse propria l’idea che un uomo poteva dimostrare l’amore anche picchiando. Lo trovo di una semplicità disarmante e fa parte delle piccole azioni quotidiane che si devono fare per cambiare la situazione.

È come se nel DNA femminile ci fosse il gene della “sottomissione” e ce l’abbiamo tutte. Anche quelle donne che si sentono arrivate. Quando diciamo “tanto sono uomini” o “non riescono a fare più di una cosa per volta” e ancora “hanno un raffreddore e credono di morire” in realtà non prendiamo in giro loro ma perpetuiamo l’idea che la donna si debba far carico di tutto perché tanto “è così”. Sbagliato!

Dovremmo tirare su la testa e farci rispettare.

Abbiamo sbagliato su tutta la linea: invece di portare l’uomo a capire veramente le donne abbiamo fatto in modo di diventare noi simili a loro partendo dal presupposto, sbagliato, che assumere i loro atteggiamenti e i loro modi di pensare potesse renderci loro eguali.

No! Ci siamo assoggettate a perdere la nostra femminilità in cambio di nulla. Indossare pantaloni, sputare per terra, usare il turpiloquio ci ha reso uguali ma non eguali. Ancora una volta ci siamo piegate come quei adolescenti che per rimanere in gruppo snaturano loro stessi diventando qualcuno che in realtà non sono. Sarebbe bello vivere in un mondo dove le donne vengono prese sul serio pur indossando una gonna; bello pensare di poter indossare un rossetto senza che qualcuno pensi all’orizzontalità della nostra carriera, meraviglioso ottenere ruoli ambiti per merito e non per quote.

Mentre ero incinta ho deciso di tenere un diario della gravidanza: scrivere a mia figlia tutti i pensieri che mi venivano in mente.

Rileggendo quelle pagine ho notato che le parole che più ricorrevano erano “indipendenza” e “rispetto”.

Non so chi vorrà essere, quale carriera vorrà intraprendere ma le ho scritto più e più volte di essere indipendente economicamente e affettivamente; di vivere la sua vita per se stessa; di rispettarsi e di credere in se stessa. Meglio sole che male accompagnate. Dovrebbero insegnarci questo da piccole non a giocare con le bambole.

Dovremmo smetterla di accontentarci delle eccezioni portandole a esempio di come vorremmo che fosse e batterci per come è giusto che sia. Se non per noi almeno per le prossime generazioni.