Amore, colpa o redenzione, perché fare un sacrificio?

Sei disposto a qualche sacrificio per ottenere un risultato?

Hai sacrificato qualcosa per la persona che ami, per la famiglia, per i figli?

Pensi che nella vita le rinunce e le tribolazioni siano una condizione normale?

Se hai risposto affermativamente ad almeno una di queste domande, hai sperimentato quella condizione di sofferenza che siamo abituati a definire “sacrificio”.

La parola sacrificio significa letteralmente “rendere sacro”, “fare sacro”.

In termini religiosi, sia antichi che moderni, il sacrificio è l’immolazione di un bene alla divinità in vista di qualcosa, fosse anche solo placarne l’ira o propiziare un raccolto.
Oggi nella nostra società non compiamo più dei sacrifici rituali, se non in chiave simbolica, e anche la nostra visione del sacrificio è un po’ mutata, le domande di apertura ne sono un emblema, anche se il sacrificio rimane un tramite.

Sacrificarsi è considerato normale in vista di un risultato, siamo abituati a privarci di qualcosa per ottenere qualcos’altro. La stima dei costi/benefici è fondamentale prima di intraprendere un passo.

Ci sacrifichiamo, ma solo se ne vale la pena.

E poi c’è quella tendenza, molto sviluppata nella persone con un’indole depressa, al sacrificio ad oltranza. Sacrificarsi diventa sinonimo di sofferenza e la sofferenza è fondamentale per l’espiazione delle colpe, presunte o reali, o per tenere in pugno qualcuno attraverso il senso di colpa. L’unica maniera di vivere concepita da questa tipologia è la via della sofferenza e del continuo sacrificio, in antitesi con uno stile di vita edonistico.
Ma per ogni aspetto della nostra esistenza esiste una visione più alta, superiore, che in qualche maniera racchiude tutte le sfaccettature e le sublima.
Così è anche per il sacrificio.

Ecco che il sacrificio può diventare un modo per sacralizzare un’azione, per purificarla. La redenzione a questo punto può diventare una conseguenza, ma non è più il fine unico.
In l’alchimia il sacrificio è un mezzo attraverso il quale l’uomo redime l’Anima Mundi attraverso se stesso.

Ma cosa rende davvero sublime questo atto? Cosa lo rende puro, regalando anche a noi stessi un frangente di assoluta redenzione?
Forse solo l’assenza di aspettative. Come per molte discipline orientali, l’eliminazione delle aspettative circa il risultato rende l’azione perfetta. È il wei wu wei, il fare senza fare.
L’azione è svolta nel miglior modo possibile, senza attese di successo o di fallimento, senza passato e senza futuro, completamente concentrata nel presente, e viene donata all’esterno attraverso noi, fluendo tranquillamente.

E nello stesso modo il sacrificio può essere fatto cercando di sfruttare al massimo le nostre potenzialità, mettendoci consapevolezza, annullando la costrizione. Allora l’azione sarà pura, sacra. La doneremo all’esterno senza attenderci qualcosa di preciso in cambio. Lo faremo per amore di qualcosa o di qualcuno, perché lo riteniamo giusto e meritevole, ma senza aspettative. Non torneremo a rinfacciare quel gesto a qualcuno, non presenteremo alcun conto futuro, perché sostanzialmente quell’azione non ci appartiene più nel momento in cui l’abbiamo ceduta al mondo.

Se pensiamo di applicare questo atteggiamento non solo ai sacrifici, ma a qualsiasi azione, vedremo la nostra vita costellata di angoli di luce, di purezza. Saremo davvero liberi dalle paure, dai sensi di colpa, dall’ansia che ci attanaglia.
Renderemo la nostra esistenza sacra e non sacrificata.