Filosofia e linguaggio

Ci domandiamo sempre più spesso cosa sia (mai) la filosofia, cosa sia il filosofare, per esempio proprio qui nella rete e in particolare nei social network.

Sapere, conoscere, pensare, essere coscienti, concetto, significato, ecc. sono affascinanti parole che richiedono di essere chiarite, perché spettano a tutti noi.

Per me è molto semplice rispondersi che non si tratta che di quello che facciamo già, non appena ci chiediamo cosa (ci) stiamo dicendo quando parliamo: è così che filosofiamo.

Non solo lo possiamo fare tutti, ma lo facciamo già tutti, sine qua non.

Filosofia e linguaggio

O siamo tutti filosofi o non lo è nessuno.

 

Filosofare non vuol dire che parlare in modo meno convenzionale possibile, non è che il tentativo di non dare troppo per scontato il cosiddetto significato delle nostre parole; o forse meglio ancora, filosofare vuol dire rendersi sufficientemente conto che non si può mai dire, ascoltare, scrivere, leggere e infine “pensare” davvero ciò che nel contempo sentiamo dentro di noi, ciò che sensibilmente ci motiva ad esprimerci linguisticamente.

Per filosofare basta rendersi conto che il cosiddetto pensiero non è fatto che di parole mentali e di senso interiore:

la nostra abilità di parlare mentalmente, di “pensare”, non è che il risultato dell’abbinamento di parole mentali al nostro senso interiore (più) coinvolgente del momento, a quello egemone.

Ci sono molte altre forme di espressione non linguistiche, comunicazionali o meno, come ad esempio il linguaggio corporale, la mente visiva e la manualità, ma la facoltà di far parola è ciò che costituisce la nostra stessa cultura: è civiltà tout court.

Sappiamo fare parole, come facciamo qualsiasi altra “cosa” nostrana: le parole sono token, suoni e segni convenzionali che funzionano come pedine sensibili che (de)codifichiamo in entrata (ascoltare e leggere) e in uscita (dire e scrivere), o semplicemente “pensandole”, dando vita alla comunicazione, alla trasmissione del meme, del gene culturale.

Non siamo macchine, per cui l’imperfezione è la regola per noi, ma lo è nel contempo anche la sensazione di quanto facciamo (senzienza): se da un lato la scienza studia (misura) le nostre abilità sensibili, noi dall’altro le sentiamo dentro di noi (introspezione).

Abbiamo così accesso a ciò che chiamiamo Humanities, al mondo nostrano fatto con e di parole, e nient’altro: o siamo tutti filosofi o non lo è nessuno, perchè la parola è di tutti e di nessuno, in quanto uso (quotidiano o disciplinare) convenzionale e simbolico di suoni e segni emessi e ricevuti (oltre che “pensati”, rappresentati mentalmente) tramite specifiche abilità biologiche del nostro organismo in evoluzione, dette linguistiche.

Filosofare vuol dire studio individuale di noi stessi in quanto individui, tutto il resto è lo studio di qualche cosa nostrana, ma mai della nostra individualità intera e/o della nostra integrità individuale (originale e autentica), nemmeno la filosofia stessa, intesa come disciplina, nemmeno la pur necessaria anzi indispensabile e insostituibile disciplina filosofica.

Ogni studio è infatti sempre e solo conducibile linguisticamente, tramite l’uso delle cosiddette parole, dei suoni e segni convenzionali e simbolici prodotti o per emissione come avviene con il dire e lo scrivere, o per ricezione come avviene con l’ascolto e la lettura, o infine tramite l’attività linguistica mentale detta “pensiero”.

Non c’è nessun sapere, ma piuttosto abbiamo bisogno di saper fare parole in merito alle mutevoli istanze sensibili del nostro sinergico mondo interiore; non c’è nessun dubbio, nessun cogito, ma solo conveninenze linguistiche di dare un nome a cosa stiamo facendo di sensibile (interiormente e esteriormente), e ciò proprio nella misura in cui ne siamo sensibili.

Ecco la vita quotidiana e la sua versione più precisa, la scienza, la misura strumentale delle nostre interazioni sensibili con l’ambiente raggiungibile sia sensibilmente (esperimentazione) che linguisticamente (teoria), con in mezzo le discipline, ossia le convenzioni linguistiche messe in atto e in opera per misurare meglio i sensibili rapporti di forza fra di noi stessi, allo stesso tempo singoli individui (realtà sensibile) nonché membri del proprio collettivo (astrazione).

Cos’è allora l’astrazione?

La capacità linguistica di collegare tra loro più esperienze sensibili:

usiamo infatti termini e frasi che designano non ciò che c’è, ma ciò che lega fra loro varie istanze sensibili, varie sensazioni:

il gruppo non è che la somma delle sue dinamiche, l’albero in genere non è che il simbolo dell’insieme dei nomi simbolici degli alberi sensibili, l’infinito non è che la negazione dell’esperienza del finito, il numero non è che il simbolo della sua quantità sensibile, ecc.

Comunque sia, sempre e solo convenzioni linguistiche, sempre e solo suoni e segni convenzionali e simbolici.

Allora non conoscere bensì riconoscere, non pensare bensì fare parole mentali, non essere coscienti bensì nominare le sensazioni, non concetti ma termini e frasi linguistiche, non significati semantici ma vive sensazioni messe in lingua: questi sono solo tentativi, suggerimenti di far parlare meglio il linguaggio in uso comune, sono infine miei esempi concreti di come si può filosofare; non è che il mio modo (linguistico) di esprimermi, spero di suscitare il vostro.

Per me, quando parliamo, non abbiamo che le parole, tutto il resto è scienza, senzienza in primis, se non tecnologia, manualità strumentale; ma né con le parole né con la scienza o la tecnologia si può davvero saper fare qualcosa d’altro che non sia proprio ciò che stiamo facendo:

per mezzo delle parole si possono fare parole migliori, o si può far meglio le parole, misurare meglio le parole, renderle più precise,

mentre con la scienza si può far meglio la scienza, si può approfondirla, misurarla più in profondità, renderla più precisa,

e infine con la tecnologia si può rendere sempre migliore la tecnologia, misurandola sempre più profondamente, renderla più precisa, produrre nuova tecnologia sempre più precisa, profonda e misurata.

Con le parole e i loro strumenti tecnologici facciamo le nostre Humanities, con la scienza e la tecnologia, con gli strumenti scientifici e tecnologici, facciamo tutto il resto che si può sa vuole deve fare; nel quotidiano viviamo sia quello che ci diciamo che quello che abbiamo a disposizione, a portata di mano.