Il Rugby, perché piace?

O almeno perché piace a me. Cosa vedo al di là delle regole che lo annoverano come uno dei giochi di squadra più complessi? Secondo me il segreto sta proprio in queste parole: gioco di squadra.

 

Perché il rugby cattura quasi in egual misura uomini e donne incollandogli gli occhi ed il cuore a quel campo d’erba dove trenta scalmanati si danno un gran d’affare per mantenere il possesso di una palla fatta male? Il rugby è un gioco tribale. Risveglia ed esprime concetti antichi quanto l’uomo.

Il forte senso di appartenenza ad un gruppo lanciato verso un unico obiettivo in cui il singolo individuo può esprimere al meglio le proprie capacità a favore della collettività. Un territorio da difendere ed uno da conquistare. Un oggetto, un concetto – la palla – da mantenere vivo, da portare avanti oltre la linea di meta, come un sogno da realizzare andando al di là dei propri limiti.

Una similitudine della vita: la lotta, la conquista, la realizzazione e la gioia che ne consegue. Ma anche la sconfitta che va vissuta come input ad andare avanti con onore rispettando se stessi e chi ci sta di fronte. Il rispetto dell’avversario senza il quale non esisterebbe lotta, nel caso, il riconoscimento della sua superiorità dalla quale si può solo imparare per diventare migliori. E poi la palla. Su questa bislacca ed affascinante protagonista vorrei spendere due parole in più. Fatta male, affascinante con la sua forma ovale, “imprevedibile come una donna” per citare Diego Dominguez.

La prima volta che ho visto una partita di rugby ho avuto la netta impressione che là, sul quel campo d’erba si svolgesse una danza perfetta e suggestiva interpretata da splendidi ballerini con il corpo da gladiatori: portatori di palla in avanzamento, pallone indietro sembra un gioco contro le regole eppure il tutto si svolge in un’armonia perfetta.

E qui, secondo me, si arriva al punto del perché uomini e donne seguano il rugby seppure lo guardino con occhi diversi. Come ho detto è un gioco tribale che risveglia passioni antiche, ben radicate nell’animo maschile che si identifica in quei “guerrieri” poiché incarnano, con le loro “gesta”, ciò che ogni uomo vorrebbe essere.

Attenzione, questa non è una critica. Anche le donne colgono lo stesso messaggio, ma essendo, per così dire, dall’altra parte della barricata, apprezzano quell’insieme di coraggio, lotta per il possesso, conquista, realizzazione. Questi novelli cavalieri della palla ovale personificano, modernizzandolo, il concetto di eroe romantico che a noi donne, ammettiamolo, piace sempre tanto. Inoltre (non nascondiamoci dietro ad un filo d’erba!) a noi donne piacciono quei discoboli, quei Bronzi di Riace semoventi e vivi che si aggirano in calzoncini e magliette attillate!

A questo punto vorrei azzardare un concetto molto personale che, ci scommetto, incontrerà il sostegno di qualcuno, uomo o donna che sia.

Il rugby è un gioco altamente fisico, di impatto, di contatto.

Nelle mischie, nei placcaggi, in quegli impatti potenti, nella lotta, nella fatica, nella foga c’è qualcosa di vagamente erotico, e per erotico intendo un desiderio impetuoso, ardente, una passione sana e primordiale che va a stuzzicare quell’angolino nascosto, ma ben presente, che c’è nella natura di ognuno di noi senza distinzione di sesso.

Concludendo: il rugby, secondo me, piace perché rispecchia le pulsioni che stanno alla base del nostro “essere umani”, ne risveglia la parte più positiva.

Ancora una cosa, poi concludo questo mio osannare anche se andrei avanti all’infinito. Sugli spalti nessuno che si picchia, che si insulta, i tifosi si mischiano gli uni con gli altri e bevono insieme; in campo energumeni che se le danno di santa ragione, ma che – quando l’arbitro li riprende – sembrano tanti scolaretti. Mettiamoci anche un referee gay amato e rispettato da giocatori e tifosi… cose dell’altro mondo.

Che strano sport il rugby.