Per chi scriviamo?

Ci siamo mai chiesti realmente per chi scriviamo? Quando ci poniamo di fronte a un PC, quando cominciamo a cliccare quei minuscoli tasti moderni con le nostre dita - a volte, sono dita veloci, altre, un po’ più lente, ma poco importa -, per cosa o per chi lo facciamo?

A volte, commettiamo l’errore di scrivere per noi stessi e non per gli altri.

Fortunatamente, chi dice di scrivere per se stesso di solito mente: sì, perché scriviamo quasi sempre per gli altri, e questo perché vorremmo essere letti, compresi, apprezzati…

Chi ha ormai raggiunto le vette editoriali del successo - autori o autrici diventati quasi eroi, quasi “divini”, spesso osannati, creatori di capolavori o bestseller, che solcano terre e mari, raggiungendo un vastissimo pubblico di lettori -, ammette di preparare i propri romanzi “a tavolino”, proprio perché immagina il lettore, i suoi gusti e le sue attese; è come se lo avesse sempre davanti, come se lo conoscesse, o gli fosse famigliare, per cui scrive cosa gli piacerà, e lo fa per farsi leggere e apprezzare.

D’altra parte, se questo concetto - scrivere per il lettore - si sgancia dalla finzione letteraria, per applicarlo a ogni tipo di scrittura (siti, email, businesswriting, ecc.), ci si rende presto conto della sua importanza.

Se scriviamo qualcosa che piace solo a noi, e che capiamo solo noi, allora andiamo incontro al fallimento…

Lo stesso Borges affermava che “non esiste libro senza lettore”. È lui a fare il libro, a renderlo vivo, vero. E nelle Conversazioni americane aggiunge: “La lettura è un’elaborazione, proprio come l’esperienza è un’elaborazione. Ogni volta che leggo qualcosa, questo qualcosa viene trasformato. E ogni volta che scrivo qualcosa, questo qualcosa viene continuamente trasformato da ogni lettore. Ogni esperienza nuova arricchisce il libro”.

Ecco allora che fra libro e lettore si innesca un processo biunivoco, una relazione in cui la direzione non è mai solo in un verso, solo in un senso, ma dove uno influenza l’altro.

Il lettore ci aiuta a scrivere in modo più efficace.

Per cui, quando scriviamo, dobbiamo essere in grado di pensare al lettore, di immaginarlo (caratteristiche, gusti, tempi e modi di approccio alla lettura…), e nel farlo dobbiamo ricordarci sempre e comunque che la semplicità è una rivoluzione: si cercherà di scegliere parole ed espressioni comprensibili, di scrivere nel modo più diretto e semplice possibile, di mantenere agilità e leggerezza, tralasciando parole o frasi “ad effetto”, compiacimenti stilistici, ecc., e questo perché il lettore possa capirci.

Parola d’ordine per scrivere bene: immedesimarsi!

Mettersi nei panni del lettore, sedersi dall’altra parte della scrivania, estraniarsi da ciò che si sta scrivendo o si è già scritto, cercando di assumere un atteggiamento “distaccato”, uno sguardo “inedito”, essere capaci di guardare con occhi “distanti”, “obiettivi”, e non di parte, per decidere cosa conservare o buttare, limare o allungare, per spostare le parole, e così via.

Pensare sempre al lettore, durante e dopo la scrittura: in entrambe le fasi, durante la stesura del testo, o a rilettura dello stesso, il lettore ha la precedenza.

Lavoro non semplice, e forse frustrante, quello della separazione, del “divorzio” dalla nostra scrittura, ma necessario affinché venga rinvigorita l’efficacia del nostro testo.

Ecco perché un autore ricorre alla figura dell’editor, in grado di assumere il giusto distacco, di valutare in modo lucido un testo, di ripristinare una lettura “vergine”, priva di condizionamenti, libera da innamoramenti, ma questa poi è tutta un’altra storia…