Dell’impegno, del messaggio e del compito “educativo” dello scrittore.

Impegno” e “Messaggio” sono due parole che, come dicevo in un articolo precedente, hanno avuto fortuna negli anni settanta, alla fine di quel “sessantotto” che, piaccia o non piaccia, ha, di fatto, cambiato il volto della società moderna. Per la precisione, a queste due parole era, quasi sempre, associata una terza parola: “Testimonianza”.

 

Non m’interessa discettare più di tanto su questo punto se non per constatare che, cinquant’anni dopo, quelle tre parole sono praticamente in disuso e tutti i principali protagonisti del sessantotto, oggi sono divenuti tutti intellettuali più o meno di sistema.

Intellettuali nati e protagonisti in un’epoca in cui si bruciavano le bandiere americane, oggi insegnano di storia e di cultura americana nelle nostre Università. Politici di primo piano che, nati e cresciuti nelle sagrestie e nelle segreterie del vecchio partito cattolico, che hanno combattuto, quasi a livelli fanatici, contro il divorzio e l’aborto si sono poi sposati, hanno avuto figli, hanno poi divorziato e si sono risposati e hanno avuto altri figli. Perché tutto questo?

Appunto, perché le parole “Impegno” e “Testimonianza” sono state di moda in quel periodo, ma sono ormai desuete e ci ritroviamo oggi, cinquant’anni dopo, con una generazione che è agli antipodi di tutto questo. I giovani contemporanei nemmeno le hanno mai sentite. Se ne stanno “nel loro”: sui social, nelle discoteche, e in chissà quali altri luoghi e forme di aggregazione, totalmente sconosciuti agli adulti.

Organizzano in poche ore, via whatsapp o sui social, feste, “rave party” nei quali, improvvisamente, con sommo stupore degli adulti, si ritrovano in grandi assembramenti: migliaia di ragazzi arrivano all’improvviso, senza che gli adulti riescano a capire o a sapere come hanno fatto a trovarsi tutti lì.

Senza dilungarmi troppo, credo che nessuno che si guardi intorno con un minimo d’interesse, possa immaginare niente di più inutile, nei nostri tempi, come quelle parole. Lo so, qualcuno potrebbe subito obiettare che tutti i movimenti, le onlus e, ancor più, il volontariato, sono la dimostrazione che queste parole hanno ancora un significato.

Dire che le cose non stanno così, solo perché esiste il volontariato, non serve. Sul fenomeno del volontariato ci sarebbe molto da dire e/o da chiarire, ma non mi va adesso di perdermi in questo tipo di argomenti dal momento che, a essere onesto, quello che mi preme è parlare del ruolo “educativo” che, secondo alcuni, dovrebbe avere lo scrittore.

E, per introdurre l’argomento, avevo pensato al lavoro di Golding “Il signore delle mosche” Ai fautori del ruolo “educativo” che dovrebbe avere uno scrittore, sfugge un problema (ma anche più di uno!) grande come una montagna.

Innanzitutto: chi decide cosa è educativo e cosa è diseducativo?

E’ un discorso estremamente pericoloso. E’ passato, per fortuna, poco meno di un secolo dalla nascita del famigerato Min.Cul.Pop. Ma ancora oggi, dopo quasi un secolo, ci sono tentazioni “autoritarie”, anche molto concrete, in fatto di educazione.

Il dibattito di questi mesi sulla teoria gender ha interessato, per adesso appena lo ha sfiorato, anche il mondo della scuola. Ma voi riuscite a immaginare che tipo di scuola, e, conseguentemente, di educazione, potrebbe venir fuori in un paese in cui la politica decide di cosa si può e di cosa non si può parlare nelle scuole?

Una scuola che prende le direttive su cosa insegnare e come insegnarlo, da politici corrotti o che hanno fatto la loro fortuna imbracciando forconi, oltraggiando la bandiera e le maggiori istituzioni del paese, e che non perdono occasione per manifestare le proprie idee xenofobe se non razziste. Tutto questo non è teoria. E’ la realtà dei nostri giorni!

Ma torniamo a “Il signore delle mosche” che non è certamente una lettura leggera. E’ un lavoro “tosto”, e se Golding si fosse posto il problema del ruolo educativo dello scrittore… sarebbe stata dura decidere. Perché un “messaggio” presume qualcuno che lo invia e qualcuno che lo riceve.

E se chi lo invia si pone il problema se il messaggio che invia è educativo o diseducativo… in un certo qual modo si deve “autocensurare”, se ritiene che quel messaggio, seppure nelle migliori intenzioni, potrebbe essere diseducativo per chi, ricevendolo, potrebbe leggerlo male.

Un bulletto di questi tempi, per fare un esempio, potrebbe trovare ne “Il Signore delle mosche” non pochi stimoli per nutrire il suo desiderio di primeggiare, di sopraffare il più debole, di nutrire il proprio sé. Cosicché, se lo scrittore deve avere un ruolo educativo, se la scrittura deve avere un valore educativo, lo scrittore passa in secondo piano rispetto alle cose che scrive e che, attenzione, non sempre saranno quelle che vorrebbe scrivere o come vorrebbe scriverle, ma semplicemente quelle che è educativo scrivere.

Uno tra i libri che ho più cari è “Il giovane Holden” di Salinger. Lo trovo di una disperata, struggente, malinconica, bellezza. Sicuramente molte anime belle, molti cattolici della domenica, potrebbero trovarlo diseducativo. Alcune giornate di un giovane rampollo di una famiglia bene, di notevoli possibilità economiche, che passa il suo tempo a farsi espellere dalle scuole, e se ne va in giro, in cerca di prostitute e di baristi disposti a servirgli alcoolici, che lui non potrebbe bere essendo minorenne… insomma, niente di più diseducativo. Per nostra fortuna Salinger non aveva fisime da educatore o, più semplicemente, così come fa o dovrebbe fare uno scrittore che si rispetti, nemmeno se le poneva queste domande. E, se amate il classico, pensate a Marziale, all’Antologia Palatina e così via discorrendo.

C’è anche un altro problema, grande come una catena montuosa, che sfugge alle anime belle, ai sostenitori del ruolo educativo dello scrittore. Perché solo lo scrittore? E il pittore, il poeta, il fotografo e, così via dicendo, chiunque operi nel mondo dell’arte, devono anch’essi avere un ruolo educativo? Per coerenza, la risposta evidentemente dev’essere sì. E allora…

Quando fu inaugurata la Cappella Sistina, ci fu un numero notevole di sinceri credenti e di anime belle, che si scandalizzò e lanciò i suoi anatemi, contro l’opera di Michelangelo. Un Cardinale, capo dell’inquisizione, lo definì “un bordello di nudi” e gran parte del clero giudicò l’opera un insulto al sentimento religioso. Le anime belle continuarono nella loro opera fino a che, dopo il Concilio di Trento, fu dato incarico ad un valente artista, Daniele da Volterra, di ricoprire di veli tutte quelle nudità. Da allora, Daniele da Volterra è meglio conosciuto come “il Braghettone”.

I nudi della Sistina sono restati ricoperti da veli per secoli, e parti di affresco furono rimossi a colpi di scalpello. Fino a quando, ancora una volta, cambiata la prospettiva, cambiata l’idea di cosa è educativo o diseducativo, i veli sono stati rimossi. Se i pittori si ponessero il problema del ruolo educativo dell’artista… pensate ai disegni di Tolouse Lautrec o di Degas. Quelle ballerine a cosce diseducativamente aperte. Pensate a Jeronimus Bosch e al suo “Giardino delle delizie", pensate all’espressionismo tedesco, Otto Dix e Egon Schiele in particolare, pensate alle opere in decomposizione di Francis Bacon, alla fotografia di Mapplethorpe.

Si potrebbe continuare all’infinito. E, in ultimo. Ho seguito questa discussione su un gruppo facebook di amanti di letteratura M/M e, ovviamente, quegli stessi iscritti che predicavano l’impegno, il messaggio e il ruolo educativo dello scrittore, davano per naturale, per scontato, che l’omosessualità è una cosa accettabile e per niente diseducativa.

Forse non tutti nel nostro paese, la pensano così. La nostra istruzione scolastica resta ancora, fortemente, di impianto cattolico. E il peso dei cattolici in Italia resta ancora preponderante. E allora si torna al punto di partenza: chi decide cosa è educativo e cosa è diseducativo? Problema irrisolvibile.

Ma è appena il caso di riflettere su un punto: l’istruzione e, ovviamente, in modo particolare, quella pubblica, è sempre uno dei primi interessi di qualsiasi regime o dittatura. Una delle riforme più immediate (1923) e importanti dell’era fascista fu, non a caso, la riforma della scuola, affidata al filosofo Giovanni Gentile. E molti conosceranno o ricorderanno uno degli slogan del ventennio: “Libro e moschetto fascista perfetto!”

Presumendo la buona fede di tutti coloro i quali, negli anni ma, perché no, nei secoli, si sono posti il problema della buona scuola, e della educazione, resta confermato l’assunto che, come per molti altri, il concetto di “educativo” o “diseducativo” non è universalmente dato, una volta e per sempre. E allora, come diceva Lubrano, la domanda nasce spontanea: “Ha senso chiedersi se quello che si scrive è educativo?” e, ancora di più: “E’ giusto porsi questa domanda?”

La mia idea è: no, non ha senso e non è giusto. Non ha senso, per tutto quanto ho fin qui scritto. Ma credo non sia nemmeno giusto. Un libro, un dipinto, una fotografia o una qualsiasi altra opera artistica, nascono in certi momenti particolari, Per un motivo particolare. Un momento, un’emozione, uno stato d’animo. Perché l’artista è depresso e quando scrive si rianima, Perché, improvvisamente, sei folgorato da un pensiero, da un’idea, da qualcosa che vedi o che senti o che pensi; da un’emozione, in fin dei conti. Ognuno vive la sua creazione in modi diversi. Alcuni sentono una indifferibile spinta a realizzarla, subito, altri hanno bisogno di ruminarla per molto tempo, altri ancora hanno bisogno di codificarla, programmarla, creare un vero e proprio progetto, per la sua realizzazione. Ma c’è sempre un attimo, un momento, un istante, in cui quella idea nasce.

Pensare che, subito dopo o alla fine, uno scrittore debba porsi la domanda se quello che crea è educativo… lo trovo, mi sia consentito, semplicemente folle.

Ovviamente, così come succede nella realtà, ci sono scrittori che aspirano ad essere anche educatori, e scrittori che nemmeno ci pensano. Io faccio parte di questi ultimi. Non sono riuscito a educare me stesso, figurarsi se ambisco a educare gli altri!

 

 

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