Donne con figli: come conciliare maternità e lavoro.

 

Donne con figli ed un’occupazione per il mercato: le necessarie azioni di conciliazione vita-lavoro in una prospettiva socio-economica e culturale.

 Qualche volta mi capita di tornare a casa dal lavoro con la mia bella cesta di panni stirati, sì perché lo “stiraggio sul luogo di lavoro” è una delle azioni che la cooperativa sociale in cui lavoro ha attivato in seguito ad un progetto di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, inizialmente co-finanziato.

 

 Infatti, per quanto i partner maschili collaborino nella divisione dei compiti domestici, solitamente lavare, stendere e stirare sono mansioni di competenza prettamente femminile (probabilmente qualche uomo se ne occupa, ma so per certo, da un piccolo sondaggio svolto tra le mie conoscenze personali, che si tratta più che altro di eccezioni) per cui questa azione è maggiormente a vantaggio delle lavoratrici, così come lo sono la possibilità di attingere ad un pacchetto di ore di baby sitting in caso di emergenza, l’opportunità di affidare i figli a delle educatrici durante momenti formativi, riunioni o assemblee, di fare ordini di beni di consumo dal luogo di lavoro con consegna a domicilio lavorativo o ancora, di avere a disposizione qualcuno che svolga piccole commissioni quali, ad esempio, pagare le bollette, acquistare farmaci e giornali, ritirare o restituire libri in biblioteca, ecc.

Questo tipo di azioni sono davvero il massimo che un’azienda, analizzati i bisogni, possa offrire ai propri dipendenti ed incidono veramente in modo positivo sulla qualità della vita, soprattutto delle lavoratrici, tanto più se sono madri.

Tuttavia, per andare davvero incontro alle esigenze di conciliazione vita-lavoro, la cosiddetta work-life balance, è necessario che avvenga un vero e proprio cambiamento culturale e sociale che renda naturale per un’organizzazione essere aperta alla flessibilità, perché questo non comporta maggiori costi, ma anzi fa guadagnare in attaccamento al lavoro, in efficienza, in senso di appartenenza e in benessere che, a sua volta, si riflette positivamente nel rapporto con gli altri.

A volte, può richiedere lo sforzo, ampiamente ripagato, di studiare a tavolino con i consulenti del lavoro gli strumenti più adeguati a conciliare le esigenze dei lavoratori con quelle dell’azienda, attuando un pensiero creativo che, soprattutto nell’ambito della cooperazione sociale (qui non mi riferisco di certo a quella che si serve di questo nome per coprire le proprie malefatte, discreditando le cooperative serie che hanno veramente a cuore il Bene Comune), non manca, così come non mancano i valori di fondo tesi a costruire, in un’ottica di rete, una società migliore che metta al centro l’individuo e il suo bisogno di realizzazione, offrendo ad ognuno pari opportunità, sia che si tratti di persone alle quali rivolgere i propri servizi (disabili, anziani, minori, ecc.) sia che si tratti di risorse umane interne.

Il lavoro dà identità e dignità, ma le persone non sono semplicemente ciò che fanno, ma come lo fanno:

il loro lavoro, dal più umile e ripetitivo al più prestigioso ed importante, acquista valore a seconda dell’impegno, della passione, del senso di responsabilità, del rispetto (di se stessi, degli altri, delle regole, dell’ambiente, …) con cui quello che sarebbe un contenitore vuoto ed indifferenziato viene riempito e personalizzato. Credo che questa semplice riflessione serva a capire perché il lavoro sia tanto importante, per tutti, uomini e donne, giovani e meno giovani: offre una collocazione personale, sociale ed economica; è identità, autonomia ed indipendenza alle quali nessuno può rinunciare senza entrare gravemente in crisi.

La possibilità di conciliare vita e lavoro senza dover rinunciare a quest’ultimo, soprattutto per le donne, è una questione essenzialmente culturale che coinvolge le imprese (tanto più se sociali); le famiglie, al cui interno è necessario si operi una divisione più equa fra uomo e donna dei compiti domestici, e le istituzioni pubbliche, promuovendo azioni di riorganizzazione dei tempi e degli spazi oltre che politiche sociali di sostegno alla natalità, all’occupazione femminile e all’intero ciclo di vita.

Le donne di oggi, spesso più scolarizzate degli uomini, che hanno fatto un percorso in tutto e per tutto simile ai coetanei maschi, senza discriminazioni, ottenendo talvolta risultati migliori di loro, donne che, come gli uomini, sono entrate nel mondo del lavoro raggiungendo anche posti di responsabilità senza risparmiarsi in termini di investimento di tempo, passione ed energie, queste stesse donne non sono sufficientemente preparate alle rinunce e ai compromessi ai quali sono costrette nel momento in cui prendono, solitamente non da sole, la decisione di non trascurabile rilevanza sociale, di avere un figlio;

infatti,

   i costi della conciliazione vita-lavoro gravano prevalentemente sulle loro spalle per varie ragioni che si riassumono essenzialmente nelle seguenti:
  1. non ci sono sufficienti posti di asilo nido (e se ci sono costano troppo) ed altri supporti sociali che gli permettano di continuare a lavorare serenamente e nello stesso tempo allevare i propri figli;
  2. talvolta, le madri e le suocere o altre donne che non lavorano (quelle che la giornalista Anette Dowidei definisce “le madri fondamentaliste”) le criticano per il fatto di affidare i propri figli ad altri;
  3. può capitare che una donna che entra in maternità o ha dei figli piccoli e perciò chiede, anche temporaneamente, una riduzione dell’orario di lavoro o maggior flessibilità, sia vista come un ostacolo organizzativo facendo dimenticare improvvisamente al suo datore di lavoro quanto sia professionalmente valida, preparata ed efficiente dato che non può più “dare l’anima” come prima, anche se può ancora mettere a disposizione le proprie competenze ed il bagaglio di formazione ed esperienza accumulato, cioè la sua vera ricchezza di risorsa umana;
  4. i mariti o compagni pensano ancora di poter “mangiare la torta due volte”, secondo l’espressione del sociologo Ulrich Beck, come dire “volere la botte piena e la moglie ubriaca”, cioè accettare a parole il lavoro esterno della partner ma, figli o non figli, ritenerlo perfettamente conciliabile con la tradizionale divisione del lavoro domestico non impegnandosi, quindi, in una suddivisione più equa.

Perché possa avvenire un vero cambiamento culturale, serve una maggiore rappresentanza femminile nei luoghi strategici del potere e serve una maggiore sensibilità verso questi temi affinché si possano affermare nell’agenda politica delle istituzioni pubbliche e private.

 Servono riforme strutturali che riconoscano un fondamentale valore sociale alla maternità e che mettano in moto il motore dell’occupazione femminile possibile solo se ci sono servizi di supporto alle famiglie e politiche di conciliazione vita-lavoro attuate da istituzioni ed imprese (se il lavoro femminile, oltre che un diritto, è una necessità per la buona salute dell’economia, e se mettere al mondo un figlio non è solo un bisogno dei singoli ma della collettività, non è più accettabile penalizzare le donne). Più donne che lavorano è uguale a più P.I.L. e a più figli (se le donne lavorano fanno più figli; se non lavorano ne fanno di meno o non ne fanno proprio) con conseguente necessità di servizi di supporto e cura che innesca un circolo virtuoso il quale porta altro lavoro e maggiori consumi, perché nelle famiglie in cui i partner sono entrambi occupati fuori casa vi è, evidentemente, un maggior reddito che protegge sì dagli eventi imprevisti, ma che comporta anche una più ampia disponibilità economica da investire in servizi (avendo minor tempo a disposizione non ne possono fare a meno) e consumi di vario genere (si stima che le donne orientino l’80% dei consumi della famiglia).

 

Si tratta della cosiddetta womenomics cioè l’economia che deriva dall’occupazione femminile la quale da sola fa da moltiplicatore facendo “lievitare la torta” senza l’aggiunta di altri ingredienti.

 

Maurizio Ferrera, servendosi di statistiche, sottolinea come l’Italia abbia un forte deficit di occupati proprio nel settore dei servizi alle famiglie e come sia intrappolato in un circolo vizioso, la cosidetta “trappola dell’inattività”: la scarsità di servizi è collegata alla bassa partecipazione femminile, che a sua volta è collegata alla scarsità di servizi.

Inaspettatamente, nel rapporto di fine 2011 la Banca Mondiale ha riconosciuto per la prima volta come anche il welfare possa essere un propulsore per la crescita economica: quel che serve è un intervento pubblico che sostenga la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, sollevandole almeno in parte dagli impegni di cura. Investire nei settori dei carenti servizi per l’infanzia e per gli anziani creerebbe nuovi posti di lavoro qualificati, in maggioranza al femminile, che contribuirebbero allo sviluppo economico.

La cooperazione sociale (quella guidata da veri valori di solidarietà) è il miglior partner che le istituzioni pubbliche possano desiderare al proprio fianco nella promozione dell’occupazione femminile, della natalità e delle azioni di conciliazione vita-lavoro perché essa stessa è erogatrice di servizi da immettere sul mercato con il vantaggio di creare nuova occupazione vicino a casa. Inoltre, le azioni di conciliazione rivolte al proprio interno, oltre ad aumentare la lealtà ed il benessere dei dipendenti (a maggior ragione se soci) con ulteriori riverberi positivi, danno un ritorno in termini di visibilità collocandosi tra le azioni annoverabili nel Bilancio di responsabilità Sociale sia nei confronti delle proprie risorse interne che nella costruzione di reti e legami significativi con il territorio.

E’ auspicabile un cambiamento culturale che parta anche dalle donne stesse le quali arrivino ad accettare, senza sensi di colpa, di essere delle “madri imperfette” e “sufficientemente buone” e presenti, per parafrasare Winnicot le quali educhino i figli maschi e femmine nello stesso modo senza lo stereotipo culturale della classica divisione dei compiti domestici. Le donne di oggi desiderano realizzarsi professionalmente senza dover fare scelte al ribasso, ma desiderano anche avere dei figli. Eppure, “Il doppio sì” è la formula che caratterizza le ragazze del nostro presente. In sostanza sì alla maternità, a un rapporto stretto con i propri figli, che vogliono vedere crescere giorno dopo giorno, in uno spazio familiare e affettivo, e sì a quell’altra metà dell’esistenza che è il lavoro per il mercato, che restituisce autonomia economica e identità, che permette alla donna di misurarsi nello spazio pubblico.

Il fatto che conciliare vita e lavoro sia possibile è confermato dai dati provenienti dal Nord Europa in cui elevati livelli di occupazione femminile si accompagnano a livelli di natalità vicini a quel 2,1 figli per donna necessario alla riproduzione.

Per quel che mi riguarda, credo che non sarei mai riuscita ad avere dei figli e a mantenere, contemporaneamente, il ruolo professionale che mi sono faticosamente ricucita addosso al rientro dalla prima maternità senza un datore di lavoro (la cooperativa di cui sono socia-lavoratrice) disposto a concedermi una, seppur piccola, riduzione dell’orario settimanale (da 38 a 32 ore) e, all’occorrenza, flessibilità degli orari di entrata ed uscita oltre che, talvolta, la possibilità (che implica fiducia) di svolgere a casa alcuni compiti. Non vi sarei riuscita senza dei nonni disponibili a tenere i miei figli in caso di necessità anche se mia suocera non ha la patente e i miei genitori abitano a circa 20 km di distanza; sarebbe stato difficile senza un nido privato (la lista d’attesa in quelli pubblici era troppo lunga) di cui ho avuto bisogno per un certo periodo, ma che costava circa la metà del mio stipendio e non ce l’avrei fatta nemmeno senza la possibilità di ricorrere a giornate di maternità retribuita al 30% fino ai tre anni dei bambini e non retribuite fino agli otto (ora sperimentalmente, anche frazionate a ore, fino ai 12) anche se mi hanno impoverita nonostante, proprio per questo, ne abbia usufruito con parsimonia; non vi sarei riuscita nemmeno senza rinunciare un po’ al tempo per me stessa e all’assunzione di maggiori responsabilità lavorative; ma, soprattutto, avrei avuto serie difficoltà senza un marito collaborante (il che non significa che non sia comunque io ad “avere in testa” l’organizzazione dei vari “incastri” quotidiani) il quale, in occasione della nascita dei nostri figli, ha preso ferie rinunciando, in parte, a quelle estive (di paternità retribuita si parla tanto a livello europeo, ancora con scarsi risultati), ma che è innanzitutto convinto che il benessere della nostra famiglia passi dalla realizzazione personale di tutti i suoi componenti.

Infatti, una donna non è completa solo quando adempie al compito biologico di riproduzione della specie che, secondo un luogo comune (spero superato), la dovrebbe vedere, paga e soddisfatta, rinunciare ad aspirazioni personali e professionali, ma si realizza quanto più è libera di compiere le proprie scelte senza dover rinunciare ad una parte di sé, componente fondamentale della sua identità e per questo è disposta anche a fare dei sacrifici, aggiungendo plus valore al proprio lavoro “per il mercato” e a quello domestico e di cura dei figli, a patto che il suo compagno di vita e le istituzioni pubbliche e private riconoscano concretamente al suo impegno un valore sociale ed economico da proteggere ed incentivare.

 

 

 

 (immagine leadblog elaborazione A.C.)