La “pari e patta” nelle culture nordiche

Come il solito, chi scrive coglie l’occasione di ricordare che, l’errore e l’orrore più grande che si possa compiere circa le antiche culture, è porre in essere una valutazione di genere retrospettivo. Si esaminano pensando di doverle giudicare secondo quelli che riteniamo i parametri contemporanei. Ripetutamente si è preteso che esse fossero migliori di quanto non siamo noi stessi.

Posto quanto sopra, chi scrive ritiene di rifiutare un pregiudizio circa la parità presso le culture nordiche. Sedicenti ricercatori, senza arte né parte, farneticano circa la non esistenza della parità tra uomo e donna. Tuttavia, tale semplificazione, è solo sintomo di assoluta incompetenza di persone che hanno letto a malapena due libri ignorando tutta la ricerca che, di fatto, ruota attorno alle antiche civiltà e culture.
Ebbene; la parità al nord?
Sì… e no!

“Sì” giacché esisteva e “No” in quanto non era intesa come noi la interpretiamo. Era un rapporto pareggiato più che paritario. Nei tempi moderni quel concetto avrebbe fatto la differenza mentre, nel nord Europa, assumeva lo stesso significato.

Per quanto fossero abili e raffinati nel sociale e nella disinvoltura con la quale articolarono le loro leggi, i vichinghi posero in essere un vero pastrocchio. La legge di Odino, prevedeva che alla vita politica (il voto referendario del Thing degli dei) accedessero anche le dee. La legge parlava chiaro. Odino non decideva nulla di propria iniziativa; ma attraverso il Consiglio dei dodici dei e le relative consorti.

Per i vichinghi iniziano i mal di pancia. Volevano perpetrare la tradizione patriarcale; la vita politica riservata agli uomini. Come fare per contravvenire a quella legge divina? Semplice; posero sul piatto della bilancia la vita politica per gli uomini mentre, a colpi di leggi, iniziarono a riempire l’altro piatto con “tutto il resto”. Ne derivò che lo status sociale dell’uomo (come noi lo concepiamo) passò in secondo piano rispetto a quello della donna. Tuttavia, premiando le donne con tutto il resto” non avrebbero suscitato lo sdegno di Odino.

Per sommi capi, in caso di divorzio le donne percepivano una legittima di due terzi, fu consentito loro di possedere armi (sembrerebbe nulla ma, quel lungo coltello serrato nella custodia di cuoio al lato del seno sinistro era considerato un simbolo di status).

Possedevano tutte le chiavi di casa (della dispensa, del magazzino, delle scorte alimentari, dei bauli, dei mobiletti e via di seguito).

Possedevano il diritto della prima e ultima parola circa l’educazione dei figli (il papà non poteva redarguire i figli quando, un ceffone poteva costare da una multa salata alla proscrizione); avevano il diritto di “accesso al Thing” in totale autonomia (potevano accedere al tribunale e inoltrare una denuncia o richiesta di divorzio) e si occupavano della gestione finanziaria della famiglia.

Erano le uniche a conoscere i segreti della “medicina” e, secondo gli ultimi studi, a detenere la conoscenza skaldica. Insomma, chi più ne ha ne metta.

Nelle sue lettere, Da Brema descrive il “singolare” peso sociale della donna vichinga. Parlando di quella catena che le donne legavano alla cintola, lunga sino alle ginocchia e alla quale assicuravano tutte le chiavi di casa, narrò circa il passo deciso lungo i viottoli dei villaggi. Quelle pesanti chiavi emettevano un forte tintinnio metallico cadenzato mentre gli uomini, al suono dell’inconfondibile sferragliamento, agivano con fare indifferente per ragioni di “rispetto”. Almeno, da quelle parti, l’indifferenza voleva intendere altro.

E i celti?

 

Adamo Da Brema
Adamo Da Brema

Caratterialmente insofferenti, più di quanto non fossero gli scandinavi, definiti dal Da Brema “come docili”, i celti ebbero un bel da fare. La cultura della Grande Madre, assorbita dalla coesistenza dei clan indoeuropei con gli stanziamenti europei di tradizione matriarcale, diedero vita alla cultura di La Tene (periodo proto-celtico).

La straordinaria fusione pose parecchi paletti alla società patriarcale dei britanni. Fortemente devoti alla Triplice Grande Madre e al culto della Madre Terra, non poterono far altro che accettare ciò che nei canti nordici è definita “quell’antica legge”. La legge cui allude il canto dei bardi riguarda il diritto di successione delle primogenite (qualora i maschi non vi fossero come pure fossero sfiduciati dal Consiglio) di governare i clan; a patto che fossero maritate.

Per quanto i ricercatori ne sappiano, vedere donne alla guida dei clan, pare non fosse raro. Tra mal di pancia e contorsioni, pur di non scatenare l’ira della Triplice, al reclamo di quel diritto, i celti accettavano senza uno straccio di “sorry”.
Non e’ escluso che, se pur raramente, un governo “rosa” fosse stato posto in essere anche in Scandinavia. Gli studi ancora in corso e che ruotano intorno al rinvenimento di una meravigliosa tomba degna di un capo clan e costruita per colei la quale oggi è definita “la Principessa guerriera”, ci illumineranno.

Non dimentichiamo che l’epica nordica è densa di storie che ruotano attorno all’icona della “Principessa guerriera”.
Ora, una società “evoluta”, in cui esistono avvilenti e vergognose quote rosa e lo stipendio delle donne non è pari a quello degli uomini e via di seguito, può arrogarsi il diritto di giudicare una “pari e patta” del passato?