L’isola che (forse) non c’è

Siamo nel 1516. Il Rinascimento, età di grande fiducia nell’uomo e nella sua ragione che indaga la realtà, imbocca il viale del tramonto.

Restano le conseguenze delle grandi scoperte geografiche: la consapevolezza dell’esistenza di mondi “altri”, ma anche mutamento degli equilibri economici, in seguito all’apertura di nuove rotte commerciali oltre le “colonne d’Ercole”.

Tramonta l’Italia, troppo fragile nei sistemi politici e ormai periferica dal punto di vista marittimo. Dal Nuovo Mondo, giungono in Europa flussi di metalli preziosi; ma le ricchezze si accumulano in poche mani e la maggior parte degli uomini non possiede in prima persona i propri mezzi di lavoro e sussistenza.

Davanti a una realtà tragicamente imperfetta, insorge la ragione dell’uomo rinascimentale - non ancora estinto. Sull’esempio di Platone, egli sceglie - come strumento - il dialogo letterario circa la realtà ideale.

Nel 1516, Pietro Bembo ha già pubblicato gli Asolani (1505), sul tema dell’amore; fra nove anni, compariranno le sue Prose della volgar lingua (1525), sul modello di lingua letteraria a base fiorentina.

Pietro Aretino, nel 1534, avvierà la pubblicazione dei suoi Ragionamenti, arditi esempi di dialogo filosofico sulla perfetta donna di mondo.

Tre anni prima dell’epoca da noi considerata, anche Niccolò Machiavelli aveva annunciato per lettera la nascita della propria opera più famosa, quel Principe considerato bensì uno specchio ideale, ma di Realpolitik.

Tutt’altra strada è stata scelta da Thomas More (Londra, 1478 - ivi, 1535). Egli, infatti, è il padre della famosissima Utopia, pubblicata proprio nel 1516.

L’edizione da noi consultata è quella con testo latino, versione, introduzione e note di Luigi Firpo (Vicenza 1978, Neri Pozza Editore).

Figlio di un piccolo gentiluomo di toga, More ebbe un’istruzione affidata ad ecclesiastici e proseguita ad Oxford. Come il padre, si diede alla carriera forense. Nel 1499, avviò una profonda amicizia con Erasmo da Rotterdam, altra personalità del tardo Rinascimento piena di erudizione ed ironia. Questo legame fece sì che il nome di More cominciasse a essere conosciuto fra gli umanisti europei.

Benché non si fosse mai deciso a entrare in convento, nutriva una persistente attrazione per la vita monastica. Eletto alla Camera dei Comuni (1504), sostenne le ragioni dei contribuenti contro il fiscalismo di Enrico VII. Ciò gli valse una caduta in disgrazia fino al 1509, quando salì al trono re Enrico VIII.

L’apice della sua carriera politica fu raggiunto nel 1529, quando divenne Cancelliere del regno. Quel momento aprì anche anni fertili per More dal punto di vista letterario. I tratti dominanti della sua personalità erano, insieme all’amabilità e all’arguzia, un’intransigenza e un idealismo che lo portarono a morire sul patibolo, per non aver voluto riconoscere Enrico VIII quale capo della Chiesa d’Inghilterra.

Utopia è lo specchio di questa sua personalità.

Essa coglie al balzo le recenti scoperte geografiche, per ricorrere alla finzione letteraria di un resoconto di viaggi. Come i dialoghi simil-platonici che esprimevano l’Umanesimo primocinquecentesco, l’opera inizia con un incontro fra dotti amici.

Il titolo con cui More riassume i contenuti della conversazione è: De optimo reipublicae statu, “La forma ideale dello Stato”.

Il “resoconto” è riportato per bocca di Raffaele Itlodeo, nome fittizio tratto dalle componenti della cultura di More.

Raffaele” è l’arcangelo accompagnatore dei viaggiatori, nel biblico Libro di Tobia. “Itlodeo” viene dall’unione di due parole greche, ὕθλος (“burla, fandonia”) e δαίος (dispensatore): significa, dunque, “contafrottole”.

È la stessa colta ironia che ha generato il nome “Utopia”, ovvero oὐ (“non”) e τόπος (“posto”): “Nessun posto”, o - diremmo noi oggi - “Isola che non c’è”. Perché come un’isola è descritta, cosicché si spieghi la sua distanza dal mondo conosciuto - e anche la sua specularità rispetto all’insulare Gran Bretagna.

L’opera è divisa in un Libro I e in un Libro II; il primo contiene la cornice del dialogo, il secondo descrive i costumi degli Utopiensi.

La scelta di uno stratagemma letterario simile è giustificata con la profonda cultura classica di More, che comprendeva - naturalmente - la Repubblica (390 - 370 a. C. circa) di Platone. Anche quest’opera immaginava uno Stato ideale, trattando minuziosamente vari aspetti della vita collettiva.

Oltre al modello letterario, però, è presente la viva esperienza di More, così espressa per bocca di Raffaele Itlodeo:

Certo Platone colse nel segno quando previde che, a meno che i re si fossero dedicati personalmente alla filosofia, non sarebbe mai accaduto che essi, imbevuti sin dall’infanzia e contaminati da idee distorte, abbracciassero senza riserve i suggerimenti dei filosofi […]. Prova ad immaginarmi al seguito del re di Francia […] in una cerchia di personaggi di somma avvedutezza, tra i quali si discute con grande impegno con quali artifici e macchinazioni ha da conservarsi Milano e si può ricuperare quella Napoli che gli è sfuggita di mano […] metti che io dimostri al re di Francia che tutte queste velleità guerresche, destinate a mettere a soqquadro per colpa sua tante popolazioni, dopo avergli stremato le finanze e rovinato il popolo, potrebbero anche alla fin fine lasciarlo per sua malasorte con un pugno di mosche […] Mio caro More, come credi che verrebbe accolto un discorso del genere? […]” (Libro I, pp. 59-65).

Al More-personaggio, che gli raccomanda di adeguarsi all’ambiente della politica, Itlodeo risponde:

Con questo sistema […] altro non otterrei che di ammattire anch’io nel tentativo di curare la pazzia degli altri. Perché, se voglio dire il vero, bisogna per forza che parli in quel modo; e, d’altro canto, dire il falso non so se si addica a un filosofo, ma a me no di certo” (Libro I, p. 75).

In questo dialogo, si dibattono insomma le due anime dell’autore: quella che, per tutta la vita, si è data alla politica attiva, fino alle estreme conseguenze; e quella più monastica, moralmente intransigente, che si sentiva fuori posto nel campo del compromesso.

La creazione di Utopia nasce da questo conflitto.

Su quest’ “isola che non c’è”, si può dispiegare quello che è l’ideale di More:

un ordinamento che risponda alla legge naturale, intesa come ragione umana che sconfigge le opinioni false e la logica del profitto personale.

Su Utopia, il possesso non supera mai quanto basta alle reali necessità, che si tratti del territorio di una città o della proprietà personale. Dato il principio del “soddisfacimento dei bisogni primari”, l’attività più esercitata dagli Utopiensi è l’agricoltura:

Venti persone di ogni famiglia rientrano ogni anno in città, cioè quelli che hanno compiuto il biennio in campagna, e altrettante, tratte di fresco dalla città, vengono a rimpiazzarle […] Benché questo sistema di alternare la popolazione rurale sia imposto per evitare che qualcuno venga costretto di malanimo a continuare troppo a lungo un’esistenza più faticosa, molti tuttavia, che per natura si dilettano del lavoro dei campi, ottengono l’autorizzazione a restare per parecchi anni” (Libro II, p. 91).

Un’economia basata sulle necessità primarie era anche il primo sogno platonico (Repubblica II, 372 ad); così pure è platonica l’assenza di proprietà privata su Utopia (cfr. Repubblica III, 416 d - 417 b).

In questo mondo ideale,

si ha cura di non deliberare in questioni di pubblico interesse se non se n’è discusso in senato tre giorni prima della decisione. È delitto punito con la pena capitale discutere di affari pubblici fuori del senato o dell’assemblea popolare. Dicono che questa norma venne istituita perché non riuscisse agevole, attraverso una congiura […] e l’oppressione tirannica del popolo, mutare la costituzione della repubblica” (Libro II, p. 101).

Sempre secondo il principio delle “necessità basilari”, è esercitato l’artigianato, che non dà spazio alla produzione di lusso. I vestiti sono sobri, comodi e di un’unica foggia per tutti, come l’abito di una congregazione religiosa. Il mestiere esercitato dipende dall’inclinazione naturale, così come il dedicarsi agli studi umanistici.

Molti Utopiensi coltivano qualche passione intellettuale nel tempo libero, dato che lavorano solo sei ore al giorno.

Intellettuali di professione possono essere solo coloro che dimostrano una straordinaria inclinazione per gli studi. Fra questi, vengono scelti i magistrati. Se qualcuno di loro tradisce le aspettative, viene ridestinato al lavoro manuale. Anche questo principio “meritocratico-fisiologico” proviene da Platone (cfr. Repubblica IV, 423 cd). Nel tempo libero degli Utopiensi, sono benvenuti giochi di società e da tavolo; ma è assolutamente bandito il gioco d’azzardo.

La limitazione delle ore lavorative e il tempo dedicato all’ozio culturale - come precisa More - non abbassano la produttività per un semplice motivo: non esistono ceti nullafacenti.

Qui, il discorso di Itlodeo si fa satira:

contro la disoccupazione femminile, contro il clero in sovrannumero, contro i gentiluomini che vivono di rendita e mantengono seguiti tanto numerosi quanto fannulloni. Un “antico regime”, insomma, che si mantiene con la forza del pregiudizio e dell’abitudine, contro le necessità additate dalla ragione.

Oltre a ciò, gli Utopiensi sono dotati di uno spiccato senso sociale.

Per gli ammalati, sono disponibili pubblici ospedali dotati di ogni conforto materiale e umano. È abituale, per coloro che vivono in città, prendere i pasti in comune, in edifici appositi.

La compresenza di giovani e vecchi a tavola impedisce ai primi di essere licenziosi; gli anziani ricevono i bocconi migliori, che cedono però volentieri a chi siede accanto a loro. Come alle mense monastiche, i pasti sono preceduti da letture istruttive. Ma questo non significa privarsi di musica, dolci, profumi per ambiente: “[Gli Utopiensi] non ritengono proibito nessun genere di piacere, purché non ne consegua poi un qualche danno” (Libro II, p. 125).

Questa comunità di “monaci laici”, dunque, rifugge dal rischio dell’austerità fine a se stessa, accettando come naturale il piacere. L’essere perennemente sotto gli occhi di tutti, però, fa sì che si stia lontani dalla disonestà o dagli eccessi. L’insistenza sull’armonia della convivenza e sul controllo reciproco del comportamento fa di Utopia una “società della vergogna” fortemente anti-individualista.

Per quanto riguarda oro e pietre preziose, essi - in quanto non necessari al sostentamento - sono tenuti dagli Utopiensi nella più bassa stima.

L’oro serve solo per pagare mercenari in caso di guerra, per fabbricare pattumiere e vasi da notte, per forgiare catene agli schiavi e segni d’infamia ai delinquenti. Le gemme sono giocattoli per bambini.

Vale la pena di riportare un gustoso episodio, occorso in occasione dell’arrivo a Utopia di un’ambasciata di Anemolii (dal greco ἄνεμος, “vento”: sono “pieni di vento”, cioè vanitosi):

…agli occhi di tutti gli Utopiani […] tutto quello splendido apparato sembrava una mostra di vergogne; i più insignificanti del seguito venivano ossequiati al posto dei loro padroni; gli ambasciatori in persona, scambiati per schiavi perché portavano catene d’oro, furono ignorati senz’ombra di riguardo. Anzi, avreste potuto vedere dei ragazzi che già avevano gettato via perle e gemme, i quali, nello scorgerne talune puntate alle berrette degli ambasciatori, richiamavano l’attenzione della madre e le davan di gomito, dicendo: - Guarda, mamma, quel grosso bietolone che gioca tuttora con perle e pietruzze quasi fosse ancora bambinello! - E la madre di rimando, anche lei tutta seria: - Zitto, figliolo, credo che sia uno dei buffoni dell’ambasciata” (Libro II, pp. 135-137).

In campo scientifico, si direbbe che gli Utopiensi anticipino il secolo successivo, quelle delle scienze su base empirica e matematica.

Di loro, per esattezza, More dice che “hanno fatto pressappoco le stesse scoperte dei nostri antichi” (Libro II, p. 141), in linea con la propria formazione greca e latina. Anticipano però personaggi come Keplero e Galilei, nella propria accurata conoscenza del corso degli astri; sono in grado di fare previsioni meteorologiche. Ciò che rigettano senz’altro è l’astrologia.

La loro filosofia è essenzialmente morale, ovvero dedicata a risolvere i problemi relativi al comportamento e alla convivenza, nonché al raggiungimento della felicità - scopo stesso della creazione di Utopia.

Anche la loro religione non ha altro obiettivo che di assicurare la felicità umana. Di questa, dice l’autore, non discutono mai “senza tirare in campo alcuni princìpi derivati dalla religione e da una filosofia che si avvale del raziocinio” (Libro II, p. 143). Non rifuggono da un certo atteggiamento dogmatico, nel momento in cui stabiliscono che “l’anima è immortale, nata per benignità di Dio alla felicità; dopo questa vita sono previsti premi per le nostre virtù e buone azioni e castighi per i nostri trascorsi” (ibid.). Benché gli Utopiensi ritengano perfettamente razionali detti assiomi, essi non sono giustificati tramite l’argomentazione, ma semplicemente con la necessità di controllare la condotta umana.

Riassumendo il nocciolo della sua Utopia, More scrive a questo punto:

Virtù è, secondo la loro definizione, vivere secondo natura, perché questo è il fine cui siamo destinati da Dio; e segue la guida della natura chiunque, nel desiderare o nell’aborrire le cose, obbedisce alla ragione” (Libro II, p. 145. Corsivo e grassetto nostri).

Da questo, vengono tutte le caratteristiche “desiderabili” dell’ “Isola che non c’è”:

la sua sobrietà, l’onestà dei magistrati, l’armonia fra gli abitanti, la vita dignitosa garantita a tutti, il senso della giustizia, la tolleranza religiosa (purché non si mettano in discussione i suddetti assunti).

Il progetto politico di More è inclassificabile, secondo le nostre categorie.

Non è del tutto egualitario, perché prevede l’esistenza della schiavitù (agli schiavi sono delegate le attività “indegne dei liberi”, come la macellazione), la divisione di ruoli fra uomini e donne, la reverenza verso magistrati e sacerdoti.

Non è del tutto libertario, perché limita diverse libertà, come quella sessuale o di circolazione delle persone.

Non è laico, visto che i sacerdoti godono di più venerazione rispetto ai magistrati e non sono ammessi ateismo o agnosticismo.

È allo stesso tempo conservatore (gli Utopiensi temono ogni mutamento nel loro “perfetto” modo di vivere) e rivoluzionario (perché rovescia tutte le consuetudini del “mondo reale”).

Non è nemmeno un vero e proprio programma, perché costruisce una realtà fittizia, anziché dettare precisi punti da realizzare qui e ora.

È (secondo la perfetta espressione di Virginio Rognoni, nella prefazione all’edizione citata) un “messaggio nella bottiglia”.

L’aspirazione a una società regolata secondo la retta ragione attraverserà infatti i secoli.

Tratti dell’Utopia di More si ritroveranno in Voltaire (come non ricordare l’Eldorado del Candide, dove oro e gemme sono giocattoli per bambini?). La riduzione dell’orario lavorativo a otto ore e la redistribuzione dei redditi saranno poi le principali battaglie politiche del “biennio rosso” in Italia, fra 1919 e 1920.

Esperimenti di “cultura per tutti”, abolizione della proprietà privata e redistribuzione secondo il bisogno (oltre a essere secolari regole monastiche) saranno tentati più volte nel Novecento.

Il termine stesso di “utopia” è rimasto nell’uso comune. Un mondo che non esiste è l’unico a non morire mai.