Genere. Per una critica storica dell’uguaglianza

Sinceramente, di questi tempi, non avevo proprio voglia di leggere un libro il cui titolo originale è Gender. Ma le questioni trattate da Ivan Illich (Vienna, 1926 - Brema, 2002) non hanno niente a che vedere con l’allarmismo e il complottismo troppo spesso associati al termine. Riguardano, piuttosto, mutamenti socioeconomici tanto recenti quanto secolari. Una prospettiva che, alla fine, mi ha invogliato ad aprire il volume.

 

Ivan Illich fu ordinato sacerdote a Roma, nel 1951.

   Fu attivo nelle diocesi di New York, Ponce (Puerto Rico) e Cuernavaca (Messico). Nel 1968, abbandonò volontariamente l’esercizio pubblico del sacerdozio, in seguito al procedimento avviato a suo carico dalla Congregazione per la dottrina della fede. L’accusa era di aver difeso l’autonomia religiosa e culturale dell’America latina, contro le ingerenze statunitensi. A questa cesura nella sua vita si deve la sua attività saggistica.

Una parola chiave, nell’opera di Illich, è “vernacolare”: tutto quanto è proprio di culture fortemente radicate su un territorio.

Un termine fondamentale anche per comprendere Gender (1982), in Italia: Genere. Per una critica storica dell’uguaglianza (Vicenza 2013, Neri Pozza Editore).

Illich nota, innanzitutto, come la caduta delle divisioni di genere nell’ambito del lavoro non abbia eliminato le diseguaglianze fra uomini e donne. Queste ultime, ancora all’inizio degli anni ’80, sarebbero state penalizzate da guadagni più bassi.

Per non parlare della loro significativa presenza nell’ambito del lavoro ombra, quello non documentato e/o non retribuito (per esempio, in ambito casalingo). Nei Paesi ad alto sviluppo economico, uomini e donne sarebbero divenuti “neutri economici” in competizione fra loro.

Il lavoro domestico sarebbe diventato fonte di stress, alienazione e frustrazione. Invece, nel Terzo Mondo, afferma Illich, “non esiste un’equa distribuzione né del reddito né della discriminazione economica” (p. 93).

Questa è la situazione che egli dipinge per l’America Latina:

“I più vivono nella povertà modernizzata delle bidonville. L’andamento familiare dipende in gran parte dal reddito. Ma il reddito è cresciuto a un ritmo assai inferiore a quello con cui il progresso ha distrutto il valore d’uso dell’ambiente. Per una generazione lo sviluppo ha inghiottito quelle risorse ambientali che avevano permesso alla gente di soddisfare quasi tutti i propri bisogni senza ricorrere al mercato, e in questo processo essa ha anche disimparato quasi tutte le capacità necessarie per la sussistenza” (p. 94).

Fra queste capacità, rientrerebbe quella divisione di compiti economici fra uomini e donne, che è il gender di Illich.

Egli distingue così il regno del genere vernacolare dal regime del sesso economico:

Intendo per genere sociale la dualità, vincolata a uno spazio e un tempo precisi, che pone uomini e donne in circostanze e condizioni tali da impedir lor di dire, fare, desiderare o percepire «la stessa cosa». Intendo per sesso economico, o sociale, la dualità che tende al fine illusorio di un’eguaglianza economica, politica, giuridica o sociale tra uomini e donne. In questa seconda costruzione di realtà l’eguaglianza, come dimostrerò, è quasi totalmente immaginaria. Il saggio, dunque, ha la forma di un bilancio conclusivo dell’era industriale e delle sue chimere” (pp. 49-50).

Il genere vernacolare, invece, non prevede lavoro unisex.

Questo garantisce una piena complementarità: le attività “maschili” che quelle “femminili” sono ugualmente necessarie alla sussistenza e non hanno senso le une senza le altre. Così come non ha senso la “superiorità” di un sesso sull’altro, non esistendo competizione. Quest’ultima vige nell’economia industrializzata e “non vernacolare”, per la quale Illich parla continuamente di “sessismo”.

Le culture menzionate da Illich sono, naturalmente, quelle dell’America Latina, da lui ben conosciuta. Ma le sue osservazioni si allargano ai Guayaki dell’Amazzonia, dove il paniere (e le attività a esso connesse) è dominio della donna e l’arco dell’uomo, senza che vi siano “autorità personali” al disopra di essi

Sono considerati il Québec, la Stiria, l’alto Danubio, dove gli attrezzi agricoli (e i relativi compiti) erano diversificati per uomini e per donne. Non può mancare l’economia medievale, sia feudale che cittadina.

Una significativa cesura è individuata da Illich intorno al XII secolo, quando “le società occidentali svilupparono economie fondate su eccedenze che potevano essere alienate a famiglie costituite da coppie di coniugi” (p. 135).

La coppia sposata assunse così una funzione economica. Da cerimonia nata per unire ulteriormente due famiglie già imparentate, il matrimonio divenne una evento che legava due individui in un’unità soggetta a imposte.

Ciò fece sì che l’uomo di casa divenisse l’unico rappresentante della famiglia per il pagamento del canone. Questa situazione è ciò che Illich chiama “genere dimidiato. Un ulteriore passo avverrà nel corso dell’Ottocento, quando la suddivisione dei compiti familiari fu sostituita da quella tra lavoro salariato e lavoro ombra, assegnati in maniera discriminatoria in base al sesso dei coniugi.

Anche nel modo di abitare sono osservabili differenze tra il mondo del genere vernacolare e quelle del sesso economico.

Nel primo, la casa è la domus: lo spazio condiviso dai due generi, che è unità sociale di base e che si riproduce nella figliolanza. “Vivere in un certo luogo significa farne la propria casa, mettendo al mondo bambini ma anche piantando alberi ed erigendo muri. […]

Nella cultura vernacolare, c’è una coincidenza tra abitare e vivere.” (p. 155). L’appartamento moderno, invece, “è fatto di moduli spazio-temporali economici - cioè neutri - e si propone di soddisfare i bisogni imputati agli inquilini. […]

Per gli inquilini è impossibile «farne una casa»:

il luogo è strutturato e attrezzato soltanto per il lavoro ombra. È l’indirizzo dove telecomunicazioni e arterie di traffico, postini e poliziotti possono raggiungere e servire le persone sane di corpo e di mente nonché civilizzate, quelle che sopravvivono fuori delle istituzioni grazie al Valium, alla TV e alle consegne del supermercato. È il luogo specializzato per l’esercizio dell’intimità tra esseri umani neutri, il solo dove i due sessi possano ancora pisciare nello stesso cesso” (pp. 156-157).

Questa architettura unisex, agli occhi di Illich, è intrinsecamente maschilista, perché non prevede spazi per la funzione femminile del parto. La gestione stessa dell’utero, secondo l’autore, sarebbe sfuggita di mano alle donne a partire dall’ultima generazione dell’Antico Regime, con l’arrivo della tutela dei feti (considerati cittadini o potenziali tali).

“La nemica principale del futuro cittadino e soldato era a quel punto la madre, specie se povera o nubile. Nel 1735 la polizia prussiana cominciò a schedare le donne non sposate che avevano smesso di mestruare. Le vecchie erbe abortive furono tra i primi farmaci tolti dal mercato […] L’utero fu proclamato territorio pubblico” (p. 161).

Alla perdita del “genere vernacolare”, Illich imputa anche quella che egli chiama “l’ascesa dell’eterosessuale.” “Prima del Rinascimento una persona non poteva considerarsi un omosessuale come non poteva considerarsi uno scrittore: preferiva semplicemente i ragazzi alle donne o era bravo a scrivere versi. […] nessuno di questi termini aveva il contenuto diagnostico che ha oggi. Il fare l’amore con altri uomini non rendeva intrinsecamente «diverso» un uomo” (pp. 187-188).

La progressiva identificazione degli omosessuali come “gruppo dotato di una natura deviante” fu parallela all’emergere della norma eterosessuale. In questo processo, Illich attribuisce un ruolo preponderante alla Chiesa: il “sodomita” sarebbe stato gradualmente assimilato all’eretico, in quanto sovvertente la volontà di Dio circa i ruoli dei sessi (non dei generi).

Soprattutto a partire dal XII secolo, la lotta all’eresia albigese e la pastorale per famiglie andarono di pari passo. L’istituzione religiosa entrava in un ambito regolato dal genere vernacolare (indipendente dai modelli morali cattolici), dove anche l’eresia si trasmetteva per parentela. “In questo contesto, la parola bugger [= sodomita] era usata in un’accezione doppiamente nuova: imputava piuttosto una natura perversa che un mero comportamento criminale, e un comportamento mostruoso piuttosto che un godimento della natura nel segno del peccato perché fuori dei limiti fissati da Dio” (p. 193).

La pratica della confessione e la centralità della coscienza individuale furono altri colpi inferti dal Cristianesimo al genere vernacolare: invece di “comportamenti appropriati a un uomo/una donna”, la nozione di peccato stabiliva ciò che era riprovevole per tutti, egualmente.

Anche nell’iconografia religiosa Illich rinviene tracce di mutamenti epocali. La “Madre di Dio”, una singola donna storica con un destino senza eguali, divenne la “Madonna”, l’immagine femminile per eccellenza, nell’arte gotica.

In questo passaggio, scomparve anche il ricco bestiario che l’arte romanica aveva ereditato dal folklore precristiano. La venerazione degli antichi spiriti, in età gotica, fu cacciata dalle chiese e riservata a “un nuovo tipo di sacerdote, detto generalmente una «strega»” (p. 205).

In particolare, Illich osserva la scomparsa delle “figure accovacciate” che sollevano la vulva: icona detta “Beset [Bastet]” in Egitto e proveniente dal Sudan. “Beset è arrivata sino a noi in centinaia d’esempi.

Nelle chiese tardoromaniche si mescola a una sorella, proveniente anch’essa dal Mediterraneo, la sirena a doppia coda” (p. 206). Se questa figura non scomparve del tutto, è pur vero che la sua cacciata dai luoghi di culto la trasformò da rivelazione del divino a semplice simbolo o allegoria.

Simile a Beset è Shela-na-gig, proveniente dalle Isole britanniche ed assimilata dai cristiani a Eva. Una volta scomparsa dall’iconografia nelle chiese, prestò la propria postura alle “streghe”, ovvero a quelle donne che mantenevano vivo il folklore precristiano.

Attraverso la distinzione fra genere vernacolare e sesso economico, Illich legge i processi che hanno portato all’odierna economia di mercato, con il carico di sessismo che essa comporta. Illich non è né Judith Butler, né Alain de Benoist.

Il suo “genere vernacolare” non è una sovrastruttura sociale costruita arbitrariamente sulle differenze sessuali, né qualcosa di biologicamente determinato. È, piuttosto, un concetto che esprime i costi umani dello sviluppo industriale, ciò che va perduto nella corsa all’utopia del benessere e di un’“eguaglianza” che non si realizza.

 

 

 

( foto da wsj.com)