La Cucina senza niente: Quando Napoli era mia.

Cominciamo un viaggio tra i vicoli e i ricordi di una Napoli che fu, corredato dalle ricette originali della cucina “di casa”, povera ma squisita e apprezzata in tutto il mondo...

 

Per convincerti che Napoli sia una città come tutte le altre, non ci devi pensare!

Per odiarla, per essere seccato dal suo comportamento isterico; dal chiasso dei motorini; dalla volgare pericolosità dei “nuovi barbari”; dagli autobus sgangherati, appestati. Per restare inorridito dal Centro Direzionale, impressionato dalla Stazione Centrale e disgustato dai suoi paraggi... Non devi “pensarla”.

Dopo tutti gli schiaffi, gli scippi, il raccapriccio; i Sindaci ladri; gli sfregi (oggi se ne fanno ancora alle donne, ma per motivi ancora più orribili del desiderio di vendetta di un amante tradito; si fanno per denaro, per prostituzione, per droga, per bullismo) e gli sfregi si continuano a fare anche alle antiche Chiese dimenticate, ai Mercati della tradizione, alle Piazzette nascoste e asfaltate, delimitate... imprigionate; allo Spirito, evaporato e disperso, della “Napoletanità”. Quella fotografata, per l’ultima volta, da Eduardo e poi rinchiusa in un cofanetto di DVD, come una Scatola del tempo...

Nonostante questo, devi fare del tuo meglio per non “pensarla” così da convincerti che Napoli è... una metropoli come tutte le altre.

Ma se ti soffermi col pensiero, anche solo per un momento, non ce la fai!

E l’Amore esplode, come un’eruzione inattesa, come fuochi d’artificio che ti sorprendono a tarda sera. Troppa gente ha Napoli nel cuore... da tutto il mondo sono venuti e poi l’hanno lasciata con rimpianto e nostalgia; gli Artisti ne sono sempre rimasti folgorati, gli innamorati non la scordano più; chiunque, schiavo da qualunque dipendenza, qui ha respirato un anelito di libertà.

Quand’ero ragazzo - mi racconta un “vecchio” napoletano - andavo al Ginnasio senza mai uscire sulla via principale. C’erano cento viuzze, vicoli, angiporti, palazzi “a spuntatore”, piazzette segrete, fondaci violati... Ogni mattina potevo scegliere il mio itinerario e cambiare avventura, incontrare persone diverse, figure fumose, odori tipici indimenticabili, brusii, grugare di piccioni.

Uscivo molto presto, poco dopo l’alba, non che la scuola fosse lontana, ma avevo fretta di andare per strada: Napoli era già sveglia: mi aspettava.

Dal ventre della città il mare non era lontano e potevi sentire l’odore del porto. I vicoli erano lastricati con grosse pietre laviche nere, spesso lisce, sempre umide.

I bassi non si contavano; a volte erano talmente piccoli che, specialmente d’estate, tenevano aperte le ante, offrendo uno spaccato della vita all’interno, come fossero scene di un Presepe vivente.

Allora mi discostavo un poco e guardavo dritto davanti a me per non dare “soggezione”. Ricordo mamme, in quei tuguri, sempre vestite di scuro che non dormivano mai; qualche volta all’alba, sedute alla tavola centrale, sfatte, appoggiavano la testa sulle braccia, per riposarsi cinque minuti.

Altri bassi, scuri e caotici, invece, li conoscevo fin troppo bene. Le vecchie ti allettavano tutto l’anno con le loro odorose e invitanti mercanzie, spesso calde, pronte già di prima mattina: come il calderone fumante con le “allesse”, i grossi marroni di Acerno o di Montella, sbucciati e bolliti, aromatizzati con l’alloro: offerti in un venefico “cuoppo”, fatto con la carta di giornale.

Un altro percorso, un’altra prelibatezza: le “graffe”, paste fritte e passate nello zucchero, oppure il “bocchinotto”, stessa procedura ma a forma di cannolo e imbottito di crema pasticcera.

Il venerdì e il sabato, un’altra “vecchia” faceva i “panzarottidi patate: grossi cilindri pepati, passati nel pane grattato. Li friggeva al momento, aiutata dalla figlia zitella, e si mangiavano fumanti, senza mai chiedersi quale intruglio, le megere, avessero aggiunto all’impasto.

Poi c’era Marianna, con i capelli bianchi come l’argento, sottili e raccolti in uno chignon; Marianna era pulita... alla fine della settimana, la donna, impastava “a mano” decine di “tortanielli” sugna, pepe e cicoli. Poi si poneva in testa le teglie di ferro e correva da don Vincenzo, il fornaio, che dopo aver cotto il suo pane, le “fittava” il forno grande per i suoi manicaretti.

Ad un angolo, un piccolo Bar, sfornava sfogliatelle, ricce e frolle e, per chi se la sentiva, i primi babà giganti della giornata, grondanti di sciroppo a rhum. Da là dentro uscivano i primi avventori, pronti a recarsi al lavoro, nelle botteghe, nelle piccole officine, negli uffici del centro: uomini seri che odoravano di caffè corretto con l’anice.

Bussavi a un vetro opaco e, con cinquanta lire, recuperavi tre sigarette americane.

Intanto, proprio di fronte alla chiesa “di Lucia”, il Purgatorio ad Arco - con le sue mille “cape di morto”-, sotto una serie di archi tetri, i commercianti infondevano vigore e colore, scaricando fragranti mercanzie; allestendo i banchi di frutta e verdure; “applicando” alle ganciere teste di maiale, coratelle, agnelli interi.

E, più avanti, il pescivendolo, con le spaselle di legno laccate d’azzurro, piene di alici e sarde di tutte le misure; gamberi, aluzze, aguglie e pesce bandiera.

Un capitolo a parte meriterebbero i “baccalari”: l’odore del pesce conservato, delle aringhe affumicate, delle papaccelle, delle olive condite, schiacciate: i passoloni; dei sott’aceti per l’insalata di “rinforzo”; delle alici salate di Cetara e dei castavielli.

Si spargeva un “aroma” speciale, indescrivibile, fatto di tutti gli odori, le essenze, le spezie, sapientemente miscelate, nei liquidi di governo e nell’olio. Quell’odore apriva lo stomaco e, in me, faceva nascere una grande fame... eppure, nessuna di quelle prelibatezze era particolarmente gradita al mio palato, troppo delicato, di giovinotto.

Quando i muri lisci e antichi, diventavano lunghi e senza aperture, iniziavi a fiancheggiare le grandi Chiese: san Domenico maggiore, santa Chiara, il Gesù nuovo. Donne scure, monache e preti, erano già impegnati con la prima Messa.

A pochi metri, come un faro, l’obelisco dell’Immacolata al centro della Piazza, determinava la fine del mio breve viaggio nel buio dei vicoli e nella fantasia di uno studente.

Era il momento di tirare fuori gli artigli e darsi un contegno fascinoso, per irretire le belle studentesse del Liceo o delle Magistrali.

Così cominciava la vita... dopo poco mille giovani affollavano la piazza e gli amici ti aspiravano in un gorgo gaudente che sarebbe durato per cinque, interminabili, ore.

       

 

Ricetta Tipica napoletana: Zite al Ragù di Capra

 

400 gr. di pezzi scelti di capra

1 bottiglia di sugo con basilico

1 scatolo di pezzettoni di pomodoro o di pelati (da sminuzzare) da circa 400 g.

1/2 cipolla rossa

1/2 bicchiere di vino bianco da tavola

1 tazza di Olio Extravergine

Acqua

Sale

2 pezzetti di tralcio di vite, da circa 2 cm. cadauno

Peperoncino piccante

Per la Pasta: 500 g. Ziti di Gragnano da spezzare a mano, oppure Pennoni, oppure Paccheri Napoletani.

Preparazione:

Mettere l'olio in un tegame e aggiungere la cipolla a fette sottili, aggiungere il vino e far sbollire a fuoco lento e col coperchio, finché l'odore alcolico del vino sarà sfumato.

Aggiungere tutto il pomodoro, un bicchiere d'acqua, i tralci di vite, un pizzico di sale doppio e, alla fine, adagiare nella pentola i pezzi di carne. Riportare la pentola a ebollizione, poi abbassare la fiamma e fare "peppiare", col coperchio, per circa due ore.

Quando la carne si stacca facilmente dall'osso il sugo è pronto. Aggiungere peperoncino piccante a piacere.

Nota: tenere a portata di mano un poco di acqua tiepida, se il sugo diventa troppo secco, aggiungere qualche cucchiaio di acqua durante la cottura.

 

 

 

( disegno immagine Giordano Felice 1880-1964, olio napoli su pierotrincia.it, foto Zite di Giovanna Esse )