I duri dell'Hardboiled: Attilio Veraldi, l'hardboiled sbarca in Italia

 

Nel mondo globalizzato in cui viviamo è cosa comune imbattersi, nel corso delle nostre letture, in un giallo d'azione ambientato a Milano, come in una spy story che si sviluppa tra Monaco, Lugano e Torino, o in una gangster story (leggi storia di camorra o di mafia) che si svolge a Napoli o Roma, piuttosto che in qualche sperduto paese della Sicilia o della Calabria.

Ma non è sempre stato così.

 

Prima di un certo periodo sarebbe stato oltremodo difficile che questo avvenisse; all'inizio ovviamente per l'ostracismo del regime fascista verso il genere del giallo in generale, ma soprattutto verso ciò che arrivava dall'estero e dai paesi anglosassoni, e in seguito per una certa imperante influenza del giallo di deduzione, cosiddetto all'inglese.

Libri come quelli di Carlo Lucarelli sull'ispettore Coliandro (forse ancora più conosciuto nella versione televisiva) che mescola ironia, azione e violenza metropolitana,

o i romanzi di Massimo Carlotto sul personaggio dell'Alligatore (sorta di detective senza licenza che opera tra Padova e tutto il Nord Est d'Italia)

oppure saghe del tipo Romanzo Criminale di Giancarlo De Cataldo (anche questo reso popolarissimo da film e serie tv) forse non sarebbero stati realizzabili, se qualche scrittore, in epoca un po' meno recente, non avesse fatto da apripista, aiutando a sdoganare e a rendere plausibile il romanzo cosiddetto noir in Italia.

Questo autore è stato Attilio Veraldi.

Certo, il giallo italiano moderno era nato seriamente con Gadda e "Quer pasticciaccio brutto de via Merulana" ancora nel 1927, consolidato dalla felicissima opera di Scerbanenco, e proseguito con "La donna della domenica" della ditta Fruttero & Lucentini, ma fino al 1976 nessuno aveva mai pensato di portare l'Hardboiled in Italia, e più esattamente a Napoli.

Veraldi vi nacque nel 1925, e fino ai cinquant'anni esercitò l'oscuro mestiere del traduttore.

Tradusse soprattutto dall'inglese e dallo svedese (cosa che tra l'altro gli consentì di viaggiare molto sia in Europa che in America) oltre 100 opere di letteratura in gran parte nordamericana, di autori quali

Henry Miller, John Updike, John Le Carrè, Jim Thompson, Raymond Chandler e Dashiell Hammett.

Negli anni 70 l'allora direttore della Rizzoli, Mauro Spagnol, adocchiando la letteraria raffinatezza di quel traduttore, lo convinse a cimentarsi in prima persona nella scrittura.

Nacque così "La mazzetta" (1976), su ispirazione diretta della narrativa Hardboiled americana.

Certamente Veraldi fu il primo e tuttora insuperato allievo della Scuola dei duri. Vero innovatore della nostra letteratura, sicuramente meriterebbe un'attenzione maggiore.

Il successo del romanzo fu immediato, Oreste del Buono lo definì "il più bel giallo italiano che abbia mai letto" dopo aver avuto tra le mani il dattiloscritto.

"La mazzetta" descrive una Napoli in salsa californiana, raccontando gli intrecci di drammi familiari e affari sporchi, attraverso una trama cosparsa di morti ammazzati con strumenti rudimentali.

Veraldi inventa nel romanzo un'originale figura di detective, Sasà Jovine,

un commercialista che cerca di aggiustare gli intrallazzi degli uomini più potenti della città, inseguendo egli stesso il miracolo della mazzetta.

Nonostante la conoscenza delle lezioni di Hammett e Chandler, Veraldi non si fa tentare dal costruire un mitico incipit alla "Falcone Maltese" o "Il grande sonno", ridimensionando tutto alla dimensione sordida degli affari che nel libro vengono trattati da camorristi truccati da imprenditori.

"Ogni volta che mettevo piede in quelle tre stanzottole mi si stringeva il cuore; mi sembravano ancora più brutte della volta precedente e il mobilio ancora più cadente e scadente, se possibile.

E quello era l'ufficio dell'uomo forse più ricco di Napoli, Michele Miletti. Gli sbrigavo una quantità di pratiche e ogni anno gli confezionavo - tutto un lavoro di cucito - la dichiarazione dei redditi, che risultava però sempre un abito che a lui andava troppo stretto; quindi conoscevo più o meno bene il suo guardaroba: import-export, ma non era chiaro di cosa, forniture navali, agenzia marittima, ortofrutticoli, costruzioni e varie altre cose. Tutto in quelle tre stanze sulla via Marina."

Jovine viene incaricato da Miletti di ritrovargli la figlia, Giulia, fuggita di casa.

Cosa che si rivela ben presto più complicata di quanto si potesse supporre. Il detective improvvisato incappa in un duplice omicidio e nella serie di pericolose situazioni dovute al fatto che Giulia, scappando, abbia portato con sé dei documenti compromettenti.

Le carte (che corrispondono al "Falcone" nel romanzo di Hammett, o al MacGuffin, come lo chiamava Hitchcock, ovvero il motore che fa partire e sviluppare la storia, senza che questo sia poi così importante per lo spettatore o il lettore) diventano sempre di più il vero scopo dell'inseguimento, durante il quale Jovine si trova a sua volta inseguito.

Esse riguardano un contratto d'appalto col comune della città (di questi tempi suona più familiare?) di lavori fasulli, per una cifra di ben cinque miliardi delle nostre vecchie lire, boccone che fa gola a molti.

Primo fra tutti, al nostro commercialista, che ha fatto da mediatore d'affare tra corruttori e corrotti, in vista di una sostanziosa mazzetta, e poi all'ex socio di Miletti, Casali, suo degno compare in traffici e speculazioni. Inseguendo la ragazza, tutti in realtà inseguono quei miliardi.

Sasà Jovine non pensa che ai soldi della mazzetta e agisce solo nella speranza di ottenerli.

Veraldi scelse Napoli per ambientarvi il primo romanzo, nonostante avesse abitato a Milano, poi in Scandinavia e infine in America, quasi a non volere tagliare i ponti in modo definitivo con la città natale e il suo mare. Il rischio di cadere in un tipo di scrittura di floklore macchiettistico era molto alto, ma il risultato fu di estrema originalità.

Ecco per esempio la descrizione della coppia di guappi, che più volte compare nel libro, nella scena in cui spuntano nella stanza di Jovine mentre lui dorme:

"Erano in due e stavano seduti ai piedi del letto, sul bordo, uno per parte, come due uccelli del malaugurio. O due candelieri: cioè ancor più di malaugurio, pensai subito, meccanicamente".

E, appena mezza pagina dopo:

"Mi ritrovai con un solo candeliere ai piedi del letto. Ma l'armonia appena infrantasi fu presto rimpiazzata da un'altra: anche il collega di quell'apparizione si alzò infatti, per andare a tirare pure la tenda, caso mai la luce non bastasse. Mi ristropicciai gli occhi più freneticamente adesso, abbagliato, dopodichè mi accorsi che i due erano vestiti uguali: una sola armonia di grigio, bianco, nero e salmone. Anche i baffetti erano identici, i nasi rincagnati. Insomma, l'uno la copia dell'altro".

Con una sorprendente miscela di nostalgia e realismo, di umorismo e violenza, Veraldi conduce Jovine in un vortice che comprende vendette e "fatti d'onore", sempre in cerca della ragazza ma soprattutto del proprio vantaggio, in un clima generale di decadenza morale, rendendolo l'esatto contrario, anche se in fondo umano e in qualche modo simpatico, degli eroi dai quali aveva preso l'abbrivio, in particolar modo Philip Marlowe.

Come lui, sicuramente, subisce comunque le violenze dei prepotenti:

"Ero ridotto da far pietà non solo a me stesso, ma quei due schifosi non si lasciarono commuovere. Da dove erano saltati fuori, assurdi e uguali, fetenti e cocciuti? Chi li aveva inventati? Si sfogarono ben bene, con la stessa lena che avevano messo a distruggermi la casa. Incontentabili.

Solo la lama non adoperarono, ma per il resto ricorsero a tutto, dita d'acciaio, pugni che erano martelli, mani aperte che erano spranghe di ferro, scarpe bicolori che sembravano schizza fuori da ogni parte....

La sfogata si concluse con un doppio calcio in ciascuna natica, dopodichè mi afflosciai a terra in un angolo, rivolto al muro, come un bambino in castigo e improvvisamente svenuto. Uno straccio buttato là".

Sasà, né coraggioso né geniale investigatore, si trova qui di fronte alla violenza vera, alla volgarità camorristica moderna.

La trasposizione cinematografica del romanzo arrivò puntuale, nel 1978, con la regia di Sergio Corbucci, ed ebbe interpreti del calibro di Nino Manfredi, nelle vesti di Sasà Jovine, Ugo Tognazzi, che interpretò il commissario di polizia, dal significativo nome di Assenza, e Paolo Stoppa nei panni dell'ambiguo Miletti.

Il film però rispecchia solo nel titolo il vero senso del romanzo di Veraldi.

Per il resto, regista e attori, calcano un po' troppo la mano sui clichè consolidatati della "commedia all'italiana", spingendo sul grottesco invece che sul realistico, nel tentativo, tra l'altro perfettamente riuscito, di confezionare un bel film e di accattivarsi la maggior parte del pubblico e della critica.

Rimane perciò memorabile la sequenza della "tortura degli spaghetti" (Sasà obbligato a mangiarne in quantità enorme, con sugo di polipetti, dal boss Nicola Casali, imprenditore che vuole sapere dove sono le famose "carte") nella quale Manfredi rifà sé stesso, compiacendo gli spettatori.

" - Tonino, riempigli il bicchiere all'avvocato, lo vedi che è mezzo vuoto. Chissà che bevendo non gli si sciolga la lingua. Com'è che si dice? In vino loquacitas. Ah, ah! - E rise, mostrando una merlatura di denti neri.

I fratellini lo guardarono incerti e mutriosi e alla fine decisero di lasciarlo ridere da solo; io mi sentii male già solo a vedere Tonino che riempiva il bicchiere. Aveva appena finito di colmarlo fino all'orlo che arrivò con i piatti il primo cameriere che vedevo da quando avevo messo piede in quel ristorante. Dovevano starsene nascosti nella sala interna, evidentemente, a rispettosa distanza, e notandolo ora il fatto mi parve minaccioso.

Non più minaccioso, tuttavia, della ciotola dell'indicibile matassa di pasta immersa in un sugo nero e denso che il cameriere, calvo e zoppo, mi piazzò davanti senza dire una parola.

Avrei dovuto sbrogliarla e ingurgitarla adesso, perchè gli occhietti di Casali, che già aveva attaccato a sforchettare la sua, mi schizzavano sguardi invitanti e insieme impazienti. Lui aveva davanti un piatto normale, per così dire. Almeno avrei avuto il tempo di pensare a cosa dirgli, conclusi, rassegnato. E addio dieta."

Veraldi pubblicò altri romanzi.

"Uomo di conseguenza", del 1978, che riprende il personaggio di Jovine; e poi "Il vomerese", "Naso di cane" e "L'amica degli amici", quelli tra i più riusciti.

Ma forse aveva intuito che la sua opera prima, che fu una novità nel genere del giallo italiano, avrebbe potuto essere fraintesa. Conosceva certamente la raccomandazione che Joseph Shaw era solito fare ai suoi scrittori della rivista Black Mask (tra i quali Raymond Chandler, che la seguì alla lettera in più occasioni): "Se avete qualche dubbio, fate entrare qualcuno con la pistola in pugno".

E forse, allora, la citazione che Veraldi pone all'inizio de "La mazzetta"

(di un avventore della Rhumerie Martiniquaise, ci informa)

era anche una specie di criptica autoraccomandazione letteraria, per non esagerare nelle dosi di ironia e grottesco, e utile in caso di rilettura del testo in altre forme:

"Attenzione nel versare, il troppo può diventare niente".

 

 

 

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(disegno nella foto Giuliano Fontanella elaborazione A.C.)